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La top five degli album stranieri del 2017

I London Grammar, al numero uno della mia classifica

E dopo i cinque migliori album italiani, è ora il turno della mia personalissima Top Five della musica straniera che, tra i vari Despacito e i soliti teen idol, ha regalato non pochi gioielli. Tant’è che le dolorose esclusioni non mancano: da Spirit dei Depeche Mode a For Crying Out Loud dei Kasabian fino ai lavori dei fratelli Gallagher o di Lana Del Rey.

1) Truth Is A Beautiful Thing – London Grammar
Secondo album e secondo capolavoro per il trio londinese che non sbaglia un colpo, e ancora una volta centra un perfetto mix di melodia, elettronica e suoni orchestrali dalle atmosfere ovattate, e impreziosito dalla splendida voce di Hannah Reid. Undici imperdibili brani sospesi tra pop, trip hop e indie rock; suoni perfetti, produzione di primissimo ordine. Fascino e classe.
Perla: Non Believer

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The Joshua Tree Tour: 30 anni di emozioni targate U2

Gli U2 sul palco dell’Olimpico

Dopo sei concerti degli U2, ed esattamente 24 anni dopo il primo, uno si aspetterebbe di essere sufficientemente vaccinato contro l’overdose di emozioni che lo show di Bono e soci regolarmente regala. Tanto da decidere scientemente di restare completamente all’oscuro (e in tempi di social media si tratta di un’impresa di una certa portata) di quello che sarebbe accaduto all’Olimpico nell’unica data italiana (poi raddoppiata, certo), al di là dell’ovvia riproposizione dell’intero The Joshua Tree al cui trentennale questo tour è dedicato, e lasciarsi sorprendere dalla scaletta.

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Achtung Baby, i 25 anni di una pietra miliare della musica

La cover art di Achtung Baby

La cover art di Achtung Baby

Narra la leggenda che alcuni fan riportarono indietro l’album al negozio di dischi. Dopo aver messo sul piatto il lato A del vinile (già, c’era ancora il vinile…) e aver sentito le chitarre fastidiosamente distorte dell’intro di Zoo Station, cambiarono lato e vi trovarono le chitarre ancora più fastidiosamente distorte di The Fly. Così tornarono al negozio e chiesero di cambiare l’album, a loro dire difettoso.

Era il 18 novembre 1991 e, benché si tratti ovviamente di una leggenda (d’altra parte The Fly era uscita già da un mese e si sapeva già bene come suonasse), è un aneddoto che ben racconta cosa abbia significato Achtung Baby nella storia non solo degli U2, ma di tutta la musica rock contemporanea. 25 anni dopo quella fatidica data, resta un album di un’attualità sorprendente, i cui suoni hanno influenzato l’intera decade e anche oltre, fino a ben dentro il terzo millennio. Una di quelle pietre miliari della musica che qualsiasi semplice appassionato non può non conoscere. Della genesi di quel lavoro, dei pesanti attriti tra i membri della band che la accompagnarono, dell’inutile ricerca di ispirazione in una Berlino appena riunita, privata del muro e rappacificata, è stato detto e scritto tutto. Così come della magia che si materializzò in studio seguendo il semplice giro armonico di One e che guidò quattro musicisti convinti di essere ormai al capolinea a realizzare invece un altro album capolavoro e ad assicurarsi altri 25 anni (almeno) di successi. Quindi quello che voglio provare a ricordare oggi, nel giorno di questo importante anniversario, è invece l’effetto che Achtung Baby ebbe su di me, in quello che senza dubbio fu un anno magico per la storia della musica (basti citare Nevermind, Out Of Time, Blood Sugar Sex Magik, il Black Album dei Metallica, il canto del cigno dei Queen Innuendo, Ten dei Pearl Jam, l’addio dei Dire Straits On Every Street, i due Use Your Illusion…). Su un ragazzino di diciotto anni che era solo uno dei tanti che aveva iniziato, quasi faticosamente, ad apprezzare gli arpeggi puliti in delay di The Edge e che di colpo era stato travolto da un muro sonoro di chitarre sature e distorte.

Già, perché per quanto sia stato educato alla buona musica fin da piccolo grazie a un fratello maggiore illuminato (che mi iniziò all’ascolto di Billy Joel e dei succitati Dire Straits su tutti), in età adolescenziale della band di Bono e soci mi arrivava poco. Avevo solo dieci anni quando uscì Pride e, pur essendo stata fin dall’epoca una hit devastante in heavy rotation su Deejay Television, in quel momento non ne coglievo la portata epocale; piuttosto mi chiedevo perché si chiamasse Pride quando per tutto il tempo ripeteva “in the name of love”; lo scoprii solo diversi anni dopo con il testo davanti. Avevo undici anni, invece, quando in vacanza estiva con la scuola venivo svegliato ogni mattina da un brano sconosciuto trasmesso dagli altoparlanti della camerata, che in seguito imparai a conoscere come Sunday Bloody Sunday. Avevo tredici anni, infine, quando i miei amichetti cercavano di convincermi della bellezza di With Or Without You che invece a me, tutto sommato, in quel momento, non diceva granché. Insomma, non si può certo parlare di amore a primo ascolto. E la cosa sia di consolazione a chi ha figli che ascoltano i Modà: c’è tempo per crescere e imparare. Allo stesso modo l’innamoramento con Achtung Baby non fu un colpo di fulmine, ma un lento e paziente corteggiamento; con lui, l’album, che si faceva scoprire a poco a poco, traccia dopo traccia, ed io che pian piano mi abituavo a quei suoni, li metabolizzavo quasi staccandoli dal resto, fino a riconoscere la melodia, e a scavare nella profondità dei testi.

All’inizio però fu solo One: totalmente incantato dall’andamento irrituale del pezzo, dal crescendo disperato, dall’arrangiamento perfetto, dall’incredibile dinamica di un pezzo che parte quasi come un sussurro per voce e chitarra ed esplode in una power ballad che più power non si può, fino a un finale che ti trascina in un’altra dimensione. Recuperai di corsa With Or Without You e lì ebbe luogo l’illuminazione, il riconoscimento del genio: riascoltai il brano in parallelo con One e trovai tutte le presunte regole della hit perfetta scardinate e reinventate. Entrambe costruite su giri armonici banalissimi, a dispetto delle masturbazioni mentali dei maniaci delle settime diminuite e delle quarte sospese, entrambe prive di un vero e proprio ritornello, con buona pace di tutta la retorica sanremese sull’orecchiabilità delle melodie, entrambe per lungo tempo a rischio di essere scartate e di finire nel cestino a causa dell’incertezza sulla direzione da prendere.  Salvate in un caso dalla Infinite Guitar di The Edge, nell’altro dall’intervento di Brian Eno, dopo che in seguito all’eccitazione iniziale per la nascita magica del pezzo, One si era persa tra mille overdub e mix diversi.

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Torino 5 settembre, la lezione di rock degli U2

Gli U2 suonano Invisible da dentro lo schermo

Gli U2 suonano Invisible da dentro lo schermo

Era il 1993 e un’intera generazione sognava di sentirsi cittadina della neonata Unione Europea, la Germania appena riunificata ne era l’emblema e Berlino, con i suoi frammenti di muro, ne era il simbolico centro. Due anni prima gli U2, cogliendo alla perfezione lo Zeitgeist, avevano registrato proprio a Berlino il loro capolavoro Achtung Baby, un album che avrebbe influenzato l’intera scena rock di tutti gli anni ’90 e non solo; un album spiazzante per i fans storici, una rivelazione per noi ragazzini che conoscevamo sì Pride e Sunday Bloody Sunday, New Year’s Day e With Or Without You, ma che all’epoca, fino a quel momento, eravamo presi da altri suoni.

E così quell’anno ero là ai miei primi concerti degli U2 (già perché uno solo mi sembrava poco) e in particolare ricordo il secondo, il 17 luglio al Dall’Ara di Bologna, subito dopo l’orale della maturità. Ad ascoltare quasi tutto Achtung Baby e a rimanere incantato da tutto il resto, dalle meraviglie estratte dai primi album, con il rammarico di ancora non conoscere a sufficienza quei riff coinvolgenti, quegli arpeggi in delay, quelle parole così sentite cantate dalla voce più emozionante che si potesse immaginare.

E poi c’era lo show. I maxischermi, le immagini, le scritte che scorrevano veloci, la televisione, la polemica sulla televisione. Prima Zoo TV e poi Zooropa, un modo allora del tutto innovativo di coniugare musica e spettacolo. Uno sguardo visionario sull’Europa che non avremmo voluto, su una società che stava cambiando e non necessariamente per il meglio.

Due rinnovi della patente dopo, i timori, le paure, i problemi, i temi all’ordine del giorno sono, non  troppo sorprendentemente gli stessi, e allora l’atmosfera che si respira all’Innocence+Experience Tour ricorda dannatamente quella di ventidue anni fa. Certo, sul palco non ci sono più le Trabant, simbolo della fu Germania Est, ma al centro di tutto c’è ancora l’Europa, e al centro dell’Europa c’è ancora la Germania, e al centro della Germania c’è ancora Berlino (e la sua cancelliera).

Attorno a questi temi si dipana una scaletta ricchissima e, a tratti, inattesa, ma anche perfettamente coerente nella sua logica linearità, sospesa tra l’esigenza di offrire il meglio di un repertorio ormai sconfinato e toccare i tanti temi cari a Bono. Il quale, per inciso, non rinunci al suo ruolo di predicatore e di combattente per le sue battaglie civili (una su tutte la fondazione RED che lotta per la ricerca sull’AIDS) ma lo fa con un garbo e una leggerezza, senza interrompere il flusso delle emozioni, che nei tour più recenti sembravano scomparsi.

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U2: innocenti!

 

La copertina virtuale utilizzata per iTunes

La copertina virtuale utilizzata per iTunes

Se è vero, come è vero, che la musica è tra le mie più grandi passioni, non posso non iniziare l’avventura di Bar Mat con la recensione di un album fresco di stampa, e la scelta è ovviamente caduta su Songs Of Innocence, dal momento che il web trabocca di presunti critici musicali e che ormai spalare guano a badilate sugli U2 e soprattutto su Bono sembra essere diventato il più diffuso passatempo mondiale. E chi sono io per tirarmi indietro?Mi sono preparato coscienziosamente, ascoltando l’album almeno una cinquantina di volte e leggendo in rete le recensioni più disparate, da quelle fin troppo entusiastiche come quella di Rolling Stone a quelle al limite, e certe volte oltre, dell’insulto. Anche se poi, scavando con attenzione, tra un insulto e l’altro, arriva sempre un però: “però Every Breaking Wave…”, “però Sleep Like A Baby Tonight…”, però The Troubles…”. Roba che a mettere in fila tutti i “però” vien fuori invece che è un discone.

Ora, il mio punto di vista non è quello di un critico musicale (non ne ho la capacità né le comptenze) ma quello di un fan. Un fan che come molti detrattori non ama particolarmente Bono in versione guru, ma che in un’ottica strettamente musicale ritiene gli U2 la più grande rock band dell’era moderna. Dove “grande” non è una mera misura dei milioni di copie vendute, ma piuttosto la miscela perfetta di songwriting accattivante e diretto (ruffiano? Anche ruffiano, che male c’è?), maniacale ricerca sonora, tecnica tout-court (con buona pace dei tanti detrattori di The Edge), talento e abilità nelle performance live.

Seguo gli U2 “ufficialmente” dal 1987, The Joshua Tree, il giro di basso dritto di With Or Without You: quattro accordi basici con la tonica in ottave, la cosa più semplice del mondo, eppure funziona. Sopra, l’effetto E-Bow dell’infinite guitar di The Edge su uno dei primi loop di batteria che sentivo in un disco rock. Fu amore a prima vista e con Achtung Baby la cotta divenne innamoramento vero. Certo, prima c’era stata Pride e mi ricordo bene il video in bianco e nero su Deejay Television, e ore a chiedermi perché si chiamasse “Pride” quando il ritornello ripeteva ossessivamente “in the name of love”, e finalmente sul giornalino Tutto – Musica e Spettacolo trovai il testo e la parolina “pride” in fondo all’ultima strofa, e me la tradussi e cercai chi mai fosse stato Martin Luther King. Ma avevo solo 10 anni, e la musica si miscelava tutta in un unico grande frullatore, gli U2 con gli Wham!, Vasco Rossi con Nada. In seguito, dopo Achtung Baby, avrei recuperato The Unforgettable Fire e tutta la prima produzione dei quattro di Dublino. Continua a leggere