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Classe ed eleganza al potere: il live dei Landlord al Biko Club

I Landlord sul palco del Biko Club

I Landlord sul palco del Biko Club

Dopo il breve assaggio acustico al meet & greet del Semm di Bologna, finalmente ho avuto l’opportunità di ascoltare un intero set dei Landlord, giunti alla terza tappa dell’Aside Tour dopo i pienoni registrati al Covo, sempre di Bologna, e soprattutto al Velvet della loro Rimini: ogni tanto qualcuno propheta in patria riesce ad esserlo. Il club scelto per la tappa milanese è invece il piccolo Biko, di cui un’emozionata Francesca ricorda un episodio di proprio un anno fa: da spettatrice venne ad assistere al concerto di James Vincent McMorrow, e mentre ascoltava uno dei suoi artisti preferiti, sognava di esibirsi proprio su quello stesso palco, così vicino e a contatto con la gente. Un anno più tardi, dopo aver lasciato il politecnico, frequentato il loft più famoso d’Italia e inciso il primo lavoro con la sua band, ecco che quel desiderio si realizza. Il piccolo palco fatica a contenere tutti gli strumenti della band ed è adornato con otto lampade che rendono ancora più intima l’atmosfera, il pubblico è veramente a poco più di un metro di distanza e se nessuno fa un passo ulteriore verso il palco è solo per pudore, per non invadere uno spazio che deve essere doverosamente lasciato agli artisti. Ma siamo tutti lì, incantati dal magnetismo di Francesca; ammirati dalla poliedricità di Gianluca che passa con disinvoltura dalla chitarra alle tastiere e poi ancora all’harmonium; rapiti dai ricami di Luca alla chitarra e dalla sua presenza discreta ma fondamentale come seconda voce; impressionati dai pattern di Lorenzo, che ora picchia con decisione sulle pelli, ora trova suoni elettronici in punta di bacchetta.

La scelta stilistica è infatti quella di riprodurre il più fedelmente possibile il suono che abbiamo potuto apprezzare nell’ottimo primo EP, uscito poco più di un mese fa per Inri Metatron ed intitolato appunto Aside; un suono ricco e pieno senza mai essere saturo, curato nei minimi dettagli e frutto di una costante e quasi maniacale ricerca dell’equilibrio tra parti suonate ed elettronica: il giusto tappeto sonoro per valorizzare la voce calda e delicata di Francesca, che si muove negli spazi lasciati liberi da una musica che non può e non vuole arrivare a riempire le frequenze. Suoni che brillano per raffinatezza ed eleganza, e che in Italia sarebbero classificati come alternativi e indie ma che nel mondo britannico e anglofono fanno invece parte di una corrente importante ormai diventata mainstream, come dimostra il grande numero di artisti che ne fanno parte a vario titolo.

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Florence Welch incanta Bologna

Florence Welch sul palco della Unipol Arena

Florence Welch sul palco della Unipol Arena

Travolgente, ipnotica, istrionica, sensuale, teatrale, folle, esuberante, intensa. Non è facile descrivere con aggettivi il personaggio, ma soprattutto l’artista, Florence Welch, senza dubbio il fenomeno più interessante che la musica britannica, e non solo, ci ha proposto in questi ultimi anni. Si può però provare a farlo utilizzando due immagini, due flash: i primi fotogrammi dello spettacolo entusiasmante che la rossa londinese ha regalato a una Unipol Arena gremita, insieme alla band che con lei forma i Florence and the Machine. Nel primo fotogramma, dopo l’ingresso della band, Florence entra in scena puntualissima in un lungo abito turchese pieno di svolazzi e trasparenze e a piedi nudi come da tradizione, si posiziona davanti al microfono e sposta una mano nell’aria con un gesto teatrale; l’arena esplode. Nel secondo fotogramma, invece, attacca il primo pezzo della scaletta ed il pezzo è What The Water Gave Me (peccato che non sia stata seguita dal suo naturale prolungamento Never Let Me Go) cioè il manifesto che riassume in un solo brano il suo stile musicale e la sua poetica: il titolo viene da un quadro di Frida Kahlo mentre il testo è ispirato dal suicidio di Virginia Woolf che si buttò nel fiume Ouse con le tasche piene di sassi: “Lay me down, let the only sound be the overflow, pockets full of stones”. Difficile immaginare un altro artista con la stessa presenza scenica e gli stessi riferimenti culturali.

Purtroppo il suicidio e le sventure erano all’ordine del giorno in casa Welch, dove la giovane Florence dovette assistere al divorzio dei genitori, alla morte del nonno paterno in seguito a un ictus e al suicidio della nonna materna affetta da malattia bipolare. E per non farsi mancare nulla, si esibì per la prima volta in pubblico, cantando The Skye Boat Song al funerale della nonna paterna, a sua volta vittima di ictus. Normale che i temi a lei cari siano quelli ispirati al rinascimento e al romanticismo poetico: amore e morte, tempo e dolore, paradiso e inferno. E così Florence, nonostante i soli 29 anni, porta già sul volto i segni dei tanti tormenti passati, ma anche il sorriso sincero di chi in qualche modo se li è messi alle spalle, almeno fino al prossimo. Ironizzando anche su una certa passione per il vino (“Another drink just to pass the time, I can never say no” racconta in Delilah) e sulla leggenda che la vuole comporre sempre in seguito a una sontuosa sbronza.

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La crescita costante di Violetta Zironi

Violetta Zironi sul,palco di Vinitaly (© Paola Conti)

Violetta Zironi sul,palco di Vinitaly (© Paola Conti)

Dopo diversi mesi di astinenza durante i quali, per vari motivi, non ho avuto la possibilità di assistere a concerti di Violetta Zironi non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di una doppietta in terra veneta, unita all’opportunità di abbinare due suoi concerti a un weekend tra le bellezze di Padova e Verona. Sia sul palco un po’ improvvisato dell’Osteria Barabba di Padova, sia su quello ben più strutturato di Piazza dell’Arsenale di Verona, nell’ambito degli eventi di Vinitaly and the City, Violetta si è trovata perfettamente a suo agio, esibendo un repertorio rinnovato ma come sempre fedele alle sue radici e al suo percorso musicale. E ho potuto constatare, non che ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma, che Violetta è ormai diventata una one-girl band, in grado di reggere da sola qualsiasi palco, forte solo della sua voce, della sua chitarra e del suo ukulele.

Quella che si propone al pubblico veneto, quindi, è una Violetta già molto cresciuta e maturata rispetto a soli pochi mesi fa e la cui crescita continua inesorabile e incessante grazie alle preziose esperienze che sta collezionando in Italia e in tutta Europa: le recenti date a Berlino, Parigi e Londra; le tappe italiane, e non solo, ospite dell’amico Jack Savoretti, al cui tour continua a partecipare; le sessioni di songwriting con Pedro Vito, il chitarrista dello stesso Savoretti; le tante partecipazioni a Radio 2 Social Club con Luca Barbarossa su Radio 2.

Violetta imbraccia la sua Epiphone acustica (riducendo, giustamente, il numero di pezzi che interpreta con l’ukulele) e guida il pubblico in un viaggio lungo la strada della sua musica, che parte da radici lontane e a stelle e strisce, ma che poi approda fino ai giorni nostri, unendo il piacere della modernità al gusto per le meraviglie del passato: così country, bluegrass, blues e rockabilly si mescolano e si alternano fino a sfociare in maniera del tutto naturale nei brani originali composti da Violetta, che reinterpretano la tradizione arricchendola di elementi contemporanei, e tra cui spicca la splendida Every Little Ghost che rimane intatta in tutta la sua forza e intensità anche in versione voce e chitarra, dopo averla conosciuta nel bellissimo arrangiamento brit-pop fatto con la Social Band proprio a Radio 2.

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Max Gazzè scuote Reggio Emilia al Palabigi

Max Gazzè sul palco del Palabigi

Max Gazzè sul palco del Palabigi

Per chi come me, ahimé, ha ormai un bel 4 davanti all’età questi anni duemiladieci sono una certa tortura: la giovinezza vissuta quasi interamente negli anni novanta produce una quantità intollerabile di frasi che cominciano con “Ma pensa, sono già passati vent’anni da quando…”. Il Palabigi di Reggio Emilia, pieno e bello carico, sembra in effetti popolato principalmente da giovani adulti con in bocca proprio quella frase: “Ma pensa, sono già passati vent’anni da quando è uscito Contro un’onda del mare”, il primo album di Max Gazzè che, infatti, celebra adeguatamente l’anniversario dedicando quasi più spazio agli estratti di quel lavoro che a quelli del nuovo album in promozione Maximilian.

Poi è vero che in realtà il grande pubblico iniziò a scoprirlo solo l’anno dopo, con i tre singoloni che lo lanciarono ai piani alti dell’airplay: prima Cara Valentina, poi Vento d’estate (con l’amico Niccolò Fabi) e La favola di Adamo ed Eva, tutti inseriti nell’album omonimo uscito nel 1998, dove già si trovavano ben germogliati i semi dello stile di Max Gazzè, caratterizzato da una varietà sonora ricercata, frutto delle tante esperienze fatte in Europa come turnista e produttore, e da un approccio ironico alla composizione sia nei testi, spesso dissacranti ma non di rado profondi e intensi, sia nelle musiche, con arrangiamenti spesso sospesi tra il raffinato e il kitsch. Quando, con una bella mezzora di ritardo, inizia il concerto c’è già la prima sorpresa: Max entra in scena restando sul fondale, munito di microfono ad archetto, e si diletta in evoluzioni con le braccia seguite da  scie di colore proiettate dal video alle sue spalle, mentre canta l’ultimo ottimo singolo Mille volte ancora. Dalla stessa posizione prosegue con Megabytes, curiosamente scelta insieme con la successiva Questo forte silenzio a rappresentare Ognuno fa quello che gli pare? (2001) piuttosto che Non era previsto o Il debole tra i due. Al terzo brano finalmente guadagna la sua posizione al centro del palco e soprattutto imbraccia il basso per la recente I tuoi maledettissimi impegni (Sanremo 2013) che rivela la parte più sarcastica e graffiante delle sue liriche, peraltro in questo caso molto ricercate, nella frustrazione di un uomo al quale la propria donna non trova tempo da dedicare: “Potrei farti da fermaglio per capelli se per sbaglio ti venisse voglia di tenerli su. Oppure travestirmi da molecola di vento e accarezzarti impunemente il viso, mentre non hai tempo. E non c’è una soluzione se non essere l’involucro di ogni funambolico pensiero che ti viene, quando le giornate sono piene dei tuoi maledettissimi impegni!”

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The Hateful Eight, lezione di cinema di Tarantino

La locandina di The Hateful Eight

La locandina di The Hateful Eight

Non sono la persona più adatta per commentare il cinema di Quentin Tarantino, visto che dal momento in cui nel febbraio del 1995 in un cinema di Bologna, mi imbattei quasi casualmente in Pulp Fiction è scoppiato un amore vero (clicca qui per leggere i miei pensieri sul film). Ancora più difficile commentare il suo ultimo lavoro The Hateful Eight riuscendo ad aggiungere qualcosa alla perfetta analisi di Matteo Bordone per Internazionale (leggila qui) che ne ha finemente vivisezionato i (tanti) pro senza tuttavia tralasciarne i (pochi) contro.

Riesco comunque a rendermi conto che un regista come Tarantino, e quindi i suoi film, tende a dividere il pubblico in due segmenti ben definiti: chi lo ama e chi lo odia. Questo perché ogni suo lavoro è permeato da quella cifra stilistica, da quella passione per il cinema, da quella brillantezza dei dialoghi, da quel gusto per l’inquadratura che lo rendono immediatamente riconoscibile, e quindi apprezzato o detestato. La stessa, spesso deprecata, iperviolenza che spesso si configura nelle sue espressioni più splatter è diventata col tempo un irrinunciabile marchio di fabbrica, una firma che Tarantino si diverte a mettere nei tempi e nei modi più sorprendenti, giustamente convinto che ormai l’effetto sul pubblico della disintegrazione di teste o di sangue vomitato a fiotti sia decisamente comico.

Eppure, quasi a voler smentire sé stesso, o piuttosto a voler spiazzare il pubblico in attesa della prima testa mozzata già dai titoli di testa, in The Hateful Eight per almeno due ore non si spara. Certo, ci sono armi ben in vista, armi minacciose che lasciano prevedere un finale di massacri; ci sono cadaveri, fin dall’inizio: il cospicuo bottino di un cacciatore di taglie, caricato sul tetto della diligenza. Ma nella prima parte le vere armi sono le parole, con cui gli otto protagonisti si sfidano sul filo della provocazione e dell’astuzia, cercando di svelare il meno possibile di sé stessi e di scoprire il più possibile degli altri sette.

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L’incanto della semplicità. Il live di Erica Mou al Cortile Café

EricaMou

Erica Mou durante il concerto al Cortile Café

Avete presente quando siete al buffet dell’aperitivo e, dopo aver spizzicato olive, patatine, pop corn, noccioline, sedani, carote, crostini col salame, cracker col Philadelphia e, quando va grassa, quadratini di focaccia e di piadina scarsamente farcita, finalmente arriva la pizza? L’assalto delle cavallette è tale che a stento si riesce a recuperarne un piccolo trancio e mentre lo ingurgiti in due bocconi, già allunghi il collo per vedere se ne è rimasto un pezzo (pia speranza) o se ne portano ancora (arriverà, ma tra almeno venti minuti). La verità è che se sei fortunato riesci a servirti a malapena due volte, e resti lì con la voglia di pizza e l’ultimo sedano in mano e il bicchiere dello spritz vuoto, e la vita ti sembra uno schifo.

 

Bene, immaginate che la mia pizza si chiami Erica Mou (mi perdoni per questa licenza) e che per assaggiarla sia dovuto scendere fino in Puglia per averne appunto solo due piccoli bocconi: il primo nell’estate del 2014 durante un contest per giovani cantanti (Fasano Talent Festival) a Pezze Di Greco, ridente borgo nei pressi di Fasano nel brindisino. Borgo ridente sì, ma in cui per l’occasione la temperatura era scesa fino a circa quattro gradi (in agosto, in Puglia!). La seconda nell’estate del 2015 a Martina Franca con (forse) un paio di gradi in più, ma dopo un violento temporale che stava per mandarmi malinconicamente a casa, in T-shirt e bermuda e senza ombrello, se non fosse stato per il baracchino dei panini con le bombette che mi aveva aiutato ad ingannare l’attesa mentre i poveri, efficientissimi e volenterosi organizzatori dell’evento asciugavano l’asciugabile e mettevano in sicurezza tutti i collegamenti elettrici inopinatamente allagati. In quel caso, quale premio per la mia costanza, ottenni la mia prima foto con Erica, documentata qui di seguito.

EricaMat

In entrambi i casi, comunque, avevo assunto solo piccole dosi omeopatiche di Erica (5/6 brani, venti minuti circa per ciascuno spettacolo) restando, per l’appunto, con la voglia. La voglia di qualcosa di bello e di buono che sei riuscito appena ad assaggiare ma di cui ambisci all’indigestione. D’altra parte iniziavo anche a temere che la presenza contemporanea mia e di Erica nello stesso posto creasse particolari congiunzioni astrali tali da rendere possibili, se non probabili, eventi atmosferici di scarsissima frequenza, quali per esempio una nevicata alle Bahamas. Per questo mi sono accostato con una certa prudenza alla sua data in programma a Bologna (al nord) e per di più a gennaio (in inverno), temendo come minimo una muraglia di due metri di neve sull’intera A1, o per lo meno da Milano a Orte. Ma la voglia di mangiarmi la pizza intera (finalmente un suo concerto completo) ha prevalso su tutti i timori legati alla generazione involontaria di catastrofi naturali e ancora una volta, la scelta è stata premiata.

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A Head Full Of Dreams. Chi ha paura del pop dei Coldplay?

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I Coldplay e la loro esplosione di colore

È un bivio davanti al quale si sono trovate tutte le grandi band, quelle dal successo planetario che riempiono gli stadi e muovono le masse. Una volta giunti a cinque o sei album, a quindici anni di onorata carriera, bisogna prendere una decisione che fatalmente scontenterà qualcuno, spesso tutti. Restare uguali a sé stessi e correre il rischio di essere accusati di ripetitività e monotonia o provare ad intraprendere strade diverse e correre il rischio di essere accusati di tradimento da parte dei fan storici, nostalgici per definizione. E la maggior parte delle volte, cambiare strada ha significato lasciarsi sedurre da suoni contemporanei, verrebbe da dire di moda. I Rolling Stones e la svolta disco di Miss You, gli U2 di Pop e la collaborazione non proprio riuscita col mago della techno Howie B, fino ai Muse e alle venature sinfoniche di The Resistance e l’electro-synth-rock di The 2nd Law. Ai Coldplay era già capitato, per la verità, di percorrere strade nuove, quando nel 2008 spiazzarono gran parte del loro pubblico con Viva La vida Or Death And All His Friends, un album decisamente diverso dai tre fortunatissimi lavori precedenti che li avevano consacrati come la band più importante del primo decennio del millennio. Ma l’accoglienza in quel caso fu ottima. Altrettanto non si può dire per A Head Full Of Dreams, settimo lavoro in studio della band, che ha fatto storcere il naso alla critica e a più d’uno dei sopracitati fan storici. L’accusa, mossa con somma indignazione da parte degli integralisti del rock, è quella di essere un album dannatamente pop.

Ebbene sì, è vero: è un album pop. Con più di una sfumatura elettronica (dai tappeti sonori dei pad ai suoni delle percussioni), che però è dosata con criterio e miscelata con eleganza ai marchi di fabbrica della band: i giri di pianoforte delle ballate più intense, i geniali riff di chitarra, i cori da stadio e, ovviamente, la voce inconfondibile di Chris Martin. E sono proprio le vicende personali del frontman ad influenzare come mai prima l’intera realizzazione dell’album, solo lui poteva riunire nello stesso disco, benché non nella stessa traccia, la voce della sua ex moglie Gwyneth Paltrow e quella della sua nuova compagna Annabelle Wallis. La delusione per la fine della relazione con Gwyneth, che già segnava inequivocabilmente le atmosfere cupe e spettrali di Ghost Stories, è finalmente superata e la nuova storia d’amore si traduce in un’esplosione di suoni, colori (da tutto il concept grafico ai titoli delle tracce strumentali), allegria e leggerezza. Come Mylo Xyloto, molto più di Mylo Xyloto, perché privo di momenti acustici dal momento che anche le ballate hanno un suono grosso, elettrico ed elettronico che profuma di power pop più che di cantautorato intimista.

Allora sì: parliamo di un album pop, ma nel senso migliore del termine, perché c’è il pop di plastica dei teen idol che durano il tempo di trovarne un altro più giovane e carino, e poi c’è il pop di qualità, fatto da band e artisti che hanno qualcosa da dire, e che sanno scrivere, arrangiare, suonare, cantare, produrre una hit senza per forza vendere l’anima al mercato. A Head Full Of Dreams rientra senza discussioni in questa categoria: colorato, divertente, leggero, allegro. Sì, sfacciatamente allegro in una sorta di caleidoscopica reazione ai lugubri fantasmi di Ghost Stories che adesso acquisiscono tutto un altro senso, così come ne acquista il ponte gettato verso nuovo mondo rappresentato allora da A Sky Full Of Stars, peraltro di qualità decisamente più bassa rispetto ai pezzi più disco e funky del nuovo lavoro.

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Un anno dopo, Cremonini l’è semper un etar quel!

CesareBallo

Cesare e Ballo sul palco dell’Unipol Arena

Era il 6 novembre dello scorso anno e in quell’occasione, davanti al pubblico di casa, sembrava che Cesare Cremonini avesse raggiunto l’apice della sua carriera nel corso dello straordinario concerto-evento nella sua Unipol Arena. Già, sembrava. Perché esattamente dodici mesi dopo, nello stesso posto, Cesare ha alzato di un’ulteriore tacca l’altezza della sua asticella e l’ha agevolmente superata atterrando morbido morbido sul materasso degli undicimila cuori urlanti di Casalecchio, incantati da uno show semplicemente perfetto in cui il re del pop italiano non si è risparmiato, regalando due ore e un quarto di musica e di grande spettacolo. D’altra parte, parlando del suo ultimo lavoro in studio Logico, lo stesso Cremonini lo aveva descritto come un punto di partenza, non certo di arrivo, attorno al quale definire la propria identità di artista. Un artista che rispetto a un anno fa ha solo quattro nuovi brani in repertorio (gli inediti del live Più che logico che dà il nome a questo tour) di cui tre su quattro entrano prepotentemente in scaletta, ma ha soprattutto una nuova dimensione da performer, quasi da showman.

Perché oltre a cantare e suonare, e ci mancherebbe altro, Cesare parla, racconta, intrattiene. Rispetto all’anno scorso non c’è più Joe Tacopina, volato qualche chilometro più in là sulla laguna, ma resta l’amore per il Bologna e per Bologna che trasuda da tutte le canzoni. Delizioso quando gigioneggia con le ragazze (non si vedevano lanci sul palco di reggiseni, rigorosamente rossi, dai tempi d’oro dei Duran Duran) lamentandosi del fatto che secondo Spotify il suo pubblico è prevalentemente maschile, e rivendicando simpaticamente di aver dato vita ai Lùnapop proprio per avere ragazze ai suoi concerti. “Io non dovrei stare qua sopra – spiega Cesare visibilmente commosso – dovrei stare giù in mezzo a voi, dove ho visto decine di concerti e partite di basket”. E si vede che gli si muove davvero qualcosa dentro davanti alla folla dei suoi concittadini.

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Tenete un posto per Erica Mou

Erica Mou durante uno dei suoi showcase

Erica Mou durante uno dei suoi showcase

Se cercate un facile ritornello sanremese, leggero ed orecchiabile con una bella rima baciata da fare invidia a Eros Ramazzotti, non ascoltate Erica Mou. Se cercate un’altra cantante pop identica alla precedente, alla perenne ricerca della nota più alta, più lunga, più potente dentro a una canzone fotocopia, non ascoltate Erica Mou. Se cercate una ragazza copertina che fa parlare di sé per il look, per i flirt e per il gossip più che per la sua musica, non ascoltate Erica Mou. Se cercate Erica Mou sui grandi network radiofonici o nei principali programmi televisivi non la troverete. Ma cercatela altrove, perché ne vale la pena. Ed il suo ultimo lavoro Tienimi il posto chiarisce il concetto una volta per tutte, anche per i più difficili da convincere.

L’abbiamo apprezzata nel 2012 a Sanremo con la sorprendente Nella vasca da bagno del tempo, terza classificata nella sezione Giovani dopo aver collezionato tutti i premi della critica possibili, una canzone di una maturità sorprendente per una ragazza di 22 anni quale era Erica all’epoca e in cui espressioni solo apparentemente poco liriche come “lobi a penzoloni” trovano invece una perfetta collocazione poetica in un testo profondissimo e sorprendentemente adulto. Ce ne siamo definitivamente innamourati (così si chiama la sua fandom) l’anno successivo con l’album della consacrazione Contro le onde e soprattutto con il capolavoro Dove cadono i fulmini, la splendida sintesi di un lavoro in gran parte ispirato dal mare e ad esso dedicato. Ora, a due anni di distanza e dopo aver chiuso il rapporto con la Sugar di Caterina Caselli, la cantautrice di Bisceglie torna con il suo quarto album, ancora più maturo, ancora più intimo, ancora più personale grazie alla produzione curata dalla stessa cantante insieme con i suoi musicisti e collaboratori, un album quindi totalmente indipendente per il quale il MEI le ha attribuito un premio come prima cantautrice indie nella Top 25 dei dischi più venduti in Italia, proprio grazie a Tienimi il posto.

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Luciano e il suo popolo. Ligabue trionfa a Campo Volo

Il megaschermo allestito per Campo Volo 2015

Il megaschermo allestito per Campo Volo 2015

Difficile commentare il megaconcerto di Luciano Ligabue a Campo Volo prescindendo dalle considerazioni legate all’evento più che al concerto: numeri da record, afflusso da record, durata da record, allestimento da record, polemiche da record. Un paio di aspetti devono quindi essere chiariti subito: si è trattato della grande celebrazione di massa di un ego smisurato? Certamente sì, è stato anche questo. D’altra parte chi sceglie di salire su un palco e sottoporre la propria musica al giudizio del pubblico lo fa sognando esattamente quel momento, come spiega ottimamente lo stesso Ligabue nel manifesto Tra palco e realtà (“Abbiamo un ego da far vedere ad uno bravo davvero un bel po’”).

Valeva la pena paralizzare per una settimana un quarto di una piccola città di provincia per realizzare uno spettacolo di questa portata che ha praticamente raddoppiato il numero di abitanti di Reggio Emilia per una sera? Ancora una volta sì. E non tanto, prosaicamente, per il semplice indotto economico che l’evento ha inevitabilmente generato, ma proprio per l’evento in sé. Una grande festa, un bellissimo spettacolo, uno show che ha portato non solo Ligabue ma l’intera città sotto i riflettori delle televisioni, sulle prime pagine dei giornali, tra le onde d’etere delle radio. Indubbiamente i disagi per i cittadini di Reggio potevano e dovevano essere gestiti meglio, ma qui si esula dalle competenze e dalle responsabilità di una macchina organizzativa che per quanto riguarda quello che è successo dentro all’arena di Campo Volo è stata impeccabile.

Sgombrato il campo da questi dubbi, non resto che lo show, bellissimo. Il megaschermo collabora, senza essere invasivo, alla perfetta riuscita dello spettacolo, rilanciando per il 90 % le immagini del palco (a beneficio di chi proprio non può vederlo), talvolta creando giochi e frame tra il palco, la folla e le immagini dei vecchi videoclip. E non resta che la musica. Tanta. Tantissima. Infinita. 40 canzoni, 3 ore e 40 minuti di concerto con solo due brevi pause per il cambio palco tra le tre band che hanno accompagnato Luciano lungo il percorso attraverso tre diverse epoche della sua vita e della sua carriera. Come era ampiamente annunciato, infatti, in occasione del venticinquesimo anniversario del suo primo omonimo album, Ligabue lo ha suonato integralmente con la band di allora, i Clan Destino. Allo stesso modo ha eseguito per intero Buon compleanno Elvis, che invece compiva vent’anni, con La Banda che lo accompagnava nel 1995.

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