NBA preview. Western Conference

Steph Curry nella caratteristica posa col paradenti tra le  labbra

Steph Curry nella caratteristica posa col paradenti tra le labbra

E dopo aver analizzato la Eastern Conference, oggi buttiamo un occhio a quella che dovrebbe essere ancora una volta la Conference più competitiva: la Western.

1.GOLDEN STATE WARRIORS

CurryThompsonIguodalaDurant Green. Basterebbe enunciare la death line-up che coach Kerr utilizzerà per spaccare le partite per prendere paura e attribuire subito agli Warriors il ruolo di superfavoriti. Se poi aggiungete il fatto che questo quintetto, con Harrison Barnes al posto di KD, l’anno scorso ha stabilito il primato di vittorie in regular season (73-9) e si è fermata a una stoppata (già leggendaria) di LeBron dal secondo titolo consecutivo facendosi rimontare da 3-1 nelle Finals, sembrerebbe che per gli altri possano restare solo le briciole. Sembrerebbe. Perché il basket non è matematica e non basta sommare i talenti per ottenere la squadra perfetta. Perché quando scende la death line-up e serve un lungo vero non c’è più Andrew Bogut ma Zaza Pachulia. Perché oltre a Barnes e Bogut, non ci sono più nemmeno Ezeli, Barbosa e Speights e la panchina zoppica e invecchia. Favoritissimi sì, ma mai dire mai.

2.SAN ANTONIO SPURS

La fine dell’epopea di Tim Duncan dopo 19 stagioni chiude per forza di cose un capitolo straordinario della franchigia dell’Alamo. Con Manu Ginobili, la consueta qualità spalmata su sempre meno minuti, ormai a sua volta prossimo all’addio, ecco che gli Spurs scelgono la strada della transizione “morbida” con l’obiettivo di ricostruire senza smettere di essere competitivi. Forti della nuova colonna portante della squadra Kawhi LeonardLaMarcus Aldridge, aggiungono da una parte l’esperienza di David Lee e soprattutto Pau Gasol, dall’altra l’atletismo di giovani come Davis Bertans e il probabile steal Dejounte Murray a colmare il gap di fisicità e freschezza costata la serie contro OKC agli scorsi playoff. La misura della qualità e della profondità del roster è data dal fatto che al 99% né Laprovittola e Garino (nazionali argentini) né il “nostro” Ryan Arcidiacono (uno dei talenti più interessanti usciti dal college) vi entreranno. Il resto lo faranno i “soliti” Tony Parker, Danny Green e Patty Mills (e in parte Simmons, Anderson e Dedmon), ma soprattutto il sistema e le alchimie di coach Popovich.

3.OKLAHOMA CITY THUNDER

Dice: ma come? Se sono arrivati terzi con Kevin Durant, come possono confermarsi terzi senza? Non abbiamo forse già visto due stagioni fa quali sono i limiti dei Thunder senza KD? Sì, è così ma ci sono due ma. Il primo si chiama semplicemente Russell Westbrook, che, consapevole di quanto la squadra sia ora tutta sua, non vede l’ora di far sapere all’ex compagno quanto si sia sbagliato. Il secondo è la strategia della franchigia che dovendo scegliere tra svaccare (cedere anche Westbrook e ricominciare da capo) e rilanciare, ha scelto la seconda strada costruendo una squadra equilibrata e studiata apposta per esaltare lo 0. Victor Oladipo è il compagno di reparto ideale, mentre il front court è il più profondo e versatile della lega: oltre a Steven Adams ed Enes Kanter, arrivano l’altro turco Ersan İlyasova, Joffrey Lauvergne e il rookie figlio d’arte Domantas Sabonis. Certo, lo spot da ala piccola resta inesorabilmente orfano: Andre Roberson, l’esperimento tentato fin qua da coach Donovan, può forse valere Durant in difesa ma non certo in attacco, ma se gli altri quattro (Russell in testa) riescono a dividersi i punti di KD, i Thunder diventano molto interessanti.

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NBA preview. Eastern Conference

LeBron James stoppa Andre Iguodala in Gara 7

LeBron James stoppa Andre Iguodala in Gara 7

Sempre per via del fatto che i pronostici non li sbaglia solo chi non li fa, mi espongo al pubblico ludibrio provando a prevedere (in ottobre!) quello che succederà ad aprile, in un mondo totalmente imprevedibile come quello dell’NBA, dove sorprese inaspettate, clamorosi flop, infortuni altamente condizionanti sono all’ordine del giorno. Pronosticare anche solo le otto qualificate ai playoff di ciascuna Conference è più un esercizio di stile per stimolare una dibattito che una vera valutazione tecnica, pertanto sarei già contento di azzeccarne cinque su otto e dieci su sedici. Ovviamente senza indovinare la posizione. Oggi partiamo, in onore dei defending champions, da Est.

1.CLEVELAND CAVALIERS

In una Conference da alcuni anni tecnicamente meno interessante della Western, benché ultimamente in ripresa, non si può non considerare favoriti i campioni uscenti. Con la firma in extremis di J.R. Smith il quintetto torna identico a quello dell’anno scorso, ma perde un po’ di grinta dalla panchina che garantiva Matt Dellavedova. A favore dei Cavs la possibilità di giocare finalmente con meno pressione, avendo finalmente portato a casa l’anello, a loro sfavore un anno in più sulle spalle di tutti (Mike Dunleavy e Chris Andersen non hanno certo svecchiato il roster) e la mancanza di appetito sportivo che spesso colpisce chi ha appena vinto.  Ma su questo vigilerà sicuramente il signor LeBron James, che ha una voglia matta di altri titoli, e li vuole vincere a Cleveland.

2.INDIANA PACERS

Partono da un settimo posto a est, non esaltante ma prezioso, e soprattutto da una serie persa solo in gara 7 contro la favoritissima Toronto. Il recupero definitivo di Paul George, l’inserimento di una solida point guard come Jeff Teague e il completamento del front court con Thaddeus Young e l’esperienza di Al Jefferson per agevolare la crescita di Myles Turner ne fanno una serissima pretendente alla finale di Conference. Se gira anche Monta Ellis possono dare fastidio a tanti, in tutti i casi difficile immaginarli più in basso del quarto posto.

3.CHARLOTTE HORNETS

Ok lo ammetto: ho un debole per Buzz City, non solo e non tanto per la dovuta ammirazione nei confronti di sua maestà Michael Jordan, ma soprattutto per il gioco espresso da coach Clifford e per la politica di valorizzazione dei talenti della franchigia. Molto dipenderà dal recupero completo di Michael Kidd-Gilchrist, importante in sé e per riportare Batum in 2 a formare un back court letale con Kemba Walker. Sotto i tabelloni c’è abbondanza tra Zeller, Williams, Kaminsky e Hawes a cui si aggiunge la voglia di riscatto e l’esperienza di Roy Hibbert; dalla panchina si alzano Ramon Sessions, Jeremy Lamb e il nostro Marco Belinelli. Gli ingredienti per andare fino in fondo e fare meglio del primo turno dei playoff, perso in gara 7 a Miami, ci sono tutti, nonostante una pessima preseason.

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Io e il tennis

Wilander e Lendl dopo la finale del 1988

Wilander e Lendl dopo la finale del 1988

Se il calcio è l’amore mercenario che si concede a tutti ed il basket la passione della maturità; se lo sci è la cotta che dura una stagione e la Formula 1 la moglie che ti tradisce, il tennis rimane la fidanzatina delle superiori, il primo bacio rubato, il primo scricchiolio di qualcosa che si rompe all’altezza dello stomaco. E per qualche ragione che non so spiegare, il tennis, molto più che la Coppa Davis o il Roland Garros, molto più che gli Internazionali d’Italia o Wimbledon, per me è Flushing Meadows, l’ultimo Slam dell’anno che segna la fine dell’estate. Sarà l’atmosfera di New York, sarà il vento che deconcentra, saranno gli aerei in decollo dal vicino LaGuardia che distraggono, sarà la pressione sui pochi eletti che arrivano sul cemento newyorkese alla caccia del Grande Slam, dopo aver collezionato i primi tre titoli (come Serena Williams un anno fa), sarà per tutti questi motivi che vincere gli US Open è tutto meno che scontato, soprattutto se si è favoriti. E che quindi il torneo assume un fascino tutto particolare.

Non a caso l’anno scorso, proprio in queste ore, stavamo celebrando un’incredibile, inattesa, insperabile e insperata finale tutta italiana tra Flavia Pennetta non ancora Fognini e Robertina Vinci. Una cosa talmente fuori dal mondo da indurre il Presidente del Consiglio Matteo Renzi a presenziare all’evento più importante nella storia del tennis italiano e uno dei principali nella storia dell’intero sport tricolore. Mai nessun tennista italiano (uomo o donna) era arrivato alla finale di Flushing Meadows (figuriamoci due!), mai nessun tennista italiano era mai arrivato alla finale di un qualsiasi torneo dello Slam al di fuori della comfort zone in terra battuta che sono i campi rossi del Roland Garros. Un torneo che ultimamente ci aveva regalato perle di gloria come il trionfo e la finale di Francesca Schiavone, subito bissati dalla finale di Sarita Errani. Quest’anno invece con Flavia ormai dedita a marito e famiglia, la corsa di Robertina Vinci si è interrotta ai quarti di finale (bravissima, comunque!) ma la storia degli US Open regala ancora novità e sorprese, con Serena Williams nuovamente battuta in semifinale, questa volta dall’ennesima giovane rampante: la statuaria ventiquattrenne ceca Karolína Plíšková, e detronizzata dalla nuova numero uno del mondo Angelique Kerber.

Insomma, un anno fu un trionfo su tutta la linea: il secondo Slam conquistato da una tennista italiana e la prima, e difficilmente ripetibile, finale tutta tricolore furono una soddisfazione enorme per chi come me è cresciuto a pane e terra battuta, nell’epoca in cui Roland Garros e Wimbledon erano in diretta tutti i giorni sulla Rai, e Flushing Meadows e Australian Open su quella che una volta era Tele+2. Già, perché il problema principale al giorno d’oggi è che per vedere qualche match in televisione, è obbligatorio avere almeno un abbonamento ad una piattaforma satellitare o digitale: solo Sky ed Eurosport trasmettono gli Slam, i Master 1000 e tutti i principali tornei dei tour ATP e WTA, con la lodevole eccezione di Supertennis, il canale della FIT, limitatamente di norma al tennis femminile.

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Dreams are alive tonite. Bruce Springsteen a San Siro

Bruce Springsteen e Jake Clemons sul palco di San Siro

Bruce Springsteen e Jake Clemons sul palco di San Siro

C’è una chiarissima espressione di Bruce Springsteen, nel momento in cui sale sul palco di San Siro e guarda ammirato la scenografia che i suoi fan gli hanno preparato: il secondo e il terzo anello formano la scritta Dreams are alive tonite con cartoncini blu e bianchi (i colori di The River) mentre il primo anello completa l’”installazione” con una grande bandiera italiana. A quasi 67 anni, di cui più di quaranta spesi sui palchi di mezzo mondo, deve averne viste di tutti i colori e non è certo il primo omaggio che i fan gli regalano, ma sul suo viso, rimandato dai maxischermi anche a noi poveri loggionisti del terzo anello, si disegnano i tratti del vero stupore. Scorre con gli occhi la scritta per fare intendere che ha capito e senza inchini e ringraziamenti plateali inizia a fare quello che è venuto a fare e che sa fare meglio: suonare.

In quell’immagine, in quel breve fotogramma, c’è tutto il Bruce uomo e lo Springsteen artista che abbiamo imparato a conoscere e ad amare, contraddistinto da una dote sempre più rara nello show-business: l’onestà. E non parlo dell’onestà utilizzata come una clava da qualche pseudo-politico da due lire,  ma di un’onestà ben più alta e di ben altro valore: l’onestà intellettuale. Perché Springsteen con noi è sempre stato sincero: sincera era la rabbia giovanile, la voglia di spaccare il mondo, di fuggire via da vite ordinarie inseguendo corse in macchina, amori sbilenchi, avventure notturne, la grande occasione. In poche parole, il sogno americano. Ugualmente sincera la disillusione della maturità, mai così potente come nel tormentato The Ghost Of Tom Joad, nel vedere quel sogno infranto, strangolato dall’attualità, dalle questioni razziali, dai veterani senza tetto, dalla violenza per le strade. Ed è sincero adesso, ora che anche i lineamenti del suo viso sembra essersi distesi nel sorriso bonario di uno zio gentile (definirlo nonno sarebbe offensivo…), quando sembra solo volersi godere lo spettacolo, non certo per specchiarsi in un vuoto rito autocelebrativo, ma semplicemente per ammirare l’energia del rock’n roll, quello che in quella sorta di  garbage time a luci accese trasforma tutto in un’enorme festa.

È il The River Tour, si celebrano i 35 anni (nel frattempo diventati 36) del doppio album simbolo dell’epopea del Boss del New Jersey. A differenza della parte americana del tour, tuttavia, l’album non viene eseguito per intero front to back ma ne vengono estratti solo 14 brani, sempre in rigoroso ordine cronologico ma inframmezzati da altri classici del repertorio springsteeniano. Un tuffo nel passato, certo (d’altra parte solo due canzoni in scaletta sono del terzo millennio: Death To My Hometown e The Rising), ma non un’operazione nostalgia: per quanto possa apparire banale e retorico affermare che le canzoni di Bruce sono senza tempo, la verità è che è esattamente così. La scanzonata allegria di Sherry Darling, il colossale coro che come da tradizione scuote San Siro su Hungry Heart, l’intensissima Independence Day (proprio alla vigilia del 4 luglio), la trascinante Out In The Street sembrano uscite non da un album del 1980 ma dall’esordio discografico di qualche giovane band dei nostri giorni. Solo per limitarsi agli estratti di The River.

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Da un’Arena all’altra: 35 anni di Duran Duran

Simon Le Bon, John Taylor e Dom Brown sul palco dell'Arena

Simon Le Bon, John Taylor e Dom Brown sul palco dell’Arena

C’è un’intera generazione che dovrebbe chiedere scusa ai Duran Duran. Intendiamoci, loro se ne saranno sicuramente fatti una ragione, mentre raggiungevano le vette delle classifiche di tutta Europa, riempivano gli stadi di mezzo mondo e i sogni di milioni di ragazzine alle prese con le prime battaglie contro i propri ormoni. Ma se è vero come è vero che la leggenda secondo la quale gli anni ’80 hanno rappresentato il vuoto culturale (e quindi musicale) è già stata smontata pezzo per pezzo da altri molto più bravi di me, Simon Le Bon e soci sono stati ingiustamente trattati come fenomeni da baraccone per troppo tempo, in quanto rappresentanti massimi di quella nuova ondata (soprattutto britannica) che si impose a partire da quegli anni. Accusati di fare musica di plastica come dei Modà qualsiasi, e altrettanto ingiustamente etichettati come una patinata boy band ante litteram.

D’altra parte, all’epoca, dopo un decennio duro e cattivo, contraddistinto da austerity, anni di piombo e voglia di ribellione, gli anni ’80 si presentarono con giacche di lustrini e paillettes. Da una parte l’edonismo reaganiano, dall’altra la iron lady Margaret Thatcher, in mezzo Bettino Craxi e la Milano da bere: fine della rabbia punk, inizio dell’era del glitter e del mascara; no alle chitarre sfasciate, sì ai sintetizzatori e alle prime diavolerie elettroniche. In tutto ciò si fece più caso alle mèches di Simon Le Bon e all’eyeliner di Nick Rhodes che al basso avvolgente di John Taylor o ai ricami della chitarra di Andy. Eppure tutti quelli che avevano un minimo interesse per la musica e un giradischi in casa possedevano il vinile di Arena, senza obbligatoriamente stazionare davanti al Burghy di San Babila con un Moncler addosso. Perché se altrove gli anni ’70 avevano significato Ramones, Clash e Sex Pistols, dalle nostre parti avevano significato soprattutto Brigate Rosse. Tanto valeva provare a lasciarseli alle spalle ed abbracciare la New Wave.

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Droni alla conquista di Milano: Muse live

I Muse sul palco del Forum

I Muse sul palco del Forum

È ormai chiaro da diverso tempo come la nuova frontiera del music business sia diventata la produzione e la realizzazione di spettacoli dal vivo, molto più redditizi rispetto alla vendita di copie fisiche di CD che ormai hanno un costo non più competitivo all’interno di un’offerta virtuale illimitata: troppo facile oggi l’accesso a contenuti multimediali tramite piattaforme on-line, quando lo stesso streaming è ormai legalizzato e regolamentato, senza nemmeno quel minimo di rimorso di coscienza di anni fa nel trovarsi a piratare musica (o film) illegalmente. L’unico modo per mantenere alta l’attenzione verso un prodotto che fatalmente internet ha banalizzato, rendendolo disponibile anche a un utente bassamente coinvolto e interessato, è allora quello di vendere un prodotto unico e irripetibile come un live show: perché se è vero che nel giro di pochi giorni si possono trovare ovunque i video dello spettacolo registrati con i telefonini, è altrettanto vero che le emozioni del momento dell’evento, del qui ed ora, difficilmente sono registrabili attraverso uno smartphone. E a quanto pare la gente, che riesce a risparmiare sull’acquisto di musica preferendo il download legale (almeno speriamo) all’acquisto di CD, quando non si accontenta dello streaming su Spotify o addirittura dell’infima qualità audio dei video su YouTube, è disposta a sborsare cifre importanti per ascoltare i concerti dei propri artisti, spettacoli che in certi casi definire solo concerti è francamente riduttivo. A patto, però, che lo show offerto sia davvero sensazionale, unico, irripetibile.

In questo campo, è evidente, i Muse hanno ormai fatto scuola: da sempre abituati a stupire il pubblico con spettacoli pirotecnici, palle di fuoco, utilizzo sapiente dei video e dei megaschermi, invenzioni scenografiche mai banali, sono da tempo la rock band da stadio per eccellenza, dimensione in cui si trovano perfettamente a proprio agio. Ed anche il nuovo Drones Tour, concepito invece per palasport e arene, non tradisce le attese: ancora una volta la band di Teignmouth si dimostra all’avanguardia non solo per le scelte musicali ma anche per l’originalità della proposta scenica e teatrale. Ed è così che i tanto attesi droni lo scorso 14 maggio sono atterrati ad Assago, in un Forum gremito che come sempre ha regalato un colpo d’occhio notevole, nonostante i larghi spazi vuoti nel parterre, non è chiaro se dovuti a motivi di sicurezza o a una sovrastima delle dimensioni del palco, e nonostante si trattasse della prima di ben sei date sold-out che hanno spinto il promoter italiano a lanciare l’hashtag #MuseWeek.

Con questo show, Matt Bellamy e compagni spostano di un’altra tacca verso l’alto l’asticella del concetto “la musica al centro” che era stato ideato dagli U2 nel 360° Tour tra il 2009 e il 2011. In questo caso non solo il palco è aperto e sistemato al centro del parterre, permettendo così una visione a tutto tondo da ogni settore dell’impianto, ma è anche rotante in modo che tutto il pubblico, a turno, possa incrociare lo sguardo dei propri beniamini. Allora Dominic Howard ha la sua batteria posizionata ovviamente al centro del palco rotante; alle sue spalle, in realtà un po’ sacrificato in una buca, il “membro non ufficiale” Morgan Nicholls, preziosissimo polistrumentista che affianca i tre Muse alternandosi tra tastiere, sequenze e chitarre. Ai quattro punti cardinali del palco ci sono altrettante postazioni microfoniche su cui si alternano Chris Wolstenholme con i suoi bassi distorti e immaginifici (vedi lo strano strumento che utilizza in Madness, che combina il basso synth Misa Kitara e il suo classico Status Graphite S2) e Matt che, novità assoluta, in più di un’occasione (Starlight ed Uprising per esempio) abbandona l’amata chitarra lasciando il compito dell’accompagnamento ritmico a Morgan per poter scorrazzare liberamente avanti e indietro sul palco, dedicandosi caso mai solo agli assolo. La parte video dello spettacolo viene proiettata su un display ugualmente tondo che troneggia sopra il palco e su impalpabili teli retrattili che scendono a comando dal soffitto; una produzione di altissimo livello, di elevatissimo valore tecnologico e curata nei minimi dettagli, che giustifica senza ombre di dubbio il prezzo di biglietti non certo economici.

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Classe ed eleganza al potere: il live dei Landlord al Biko Club

I Landlord sul palco del Biko Club

I Landlord sul palco del Biko Club

Dopo il breve assaggio acustico al meet & greet del Semm di Bologna, finalmente ho avuto l’opportunità di ascoltare un intero set dei Landlord, giunti alla terza tappa dell’Aside Tour dopo i pienoni registrati al Covo, sempre di Bologna, e soprattutto al Velvet della loro Rimini: ogni tanto qualcuno propheta in patria riesce ad esserlo. Il club scelto per la tappa milanese è invece il piccolo Biko, di cui un’emozionata Francesca ricorda un episodio di proprio un anno fa: da spettatrice venne ad assistere al concerto di James Vincent McMorrow, e mentre ascoltava uno dei suoi artisti preferiti, sognava di esibirsi proprio su quello stesso palco, così vicino e a contatto con la gente. Un anno più tardi, dopo aver lasciato il politecnico, frequentato il loft più famoso d’Italia e inciso il primo lavoro con la sua band, ecco che quel desiderio si realizza. Il piccolo palco fatica a contenere tutti gli strumenti della band ed è adornato con otto lampade che rendono ancora più intima l’atmosfera, il pubblico è veramente a poco più di un metro di distanza e se nessuno fa un passo ulteriore verso il palco è solo per pudore, per non invadere uno spazio che deve essere doverosamente lasciato agli artisti. Ma siamo tutti lì, incantati dal magnetismo di Francesca; ammirati dalla poliedricità di Gianluca che passa con disinvoltura dalla chitarra alle tastiere e poi ancora all’harmonium; rapiti dai ricami di Luca alla chitarra e dalla sua presenza discreta ma fondamentale come seconda voce; impressionati dai pattern di Lorenzo, che ora picchia con decisione sulle pelli, ora trova suoni elettronici in punta di bacchetta.

La scelta stilistica è infatti quella di riprodurre il più fedelmente possibile il suono che abbiamo potuto apprezzare nell’ottimo primo EP, uscito poco più di un mese fa per Inri Metatron ed intitolato appunto Aside; un suono ricco e pieno senza mai essere saturo, curato nei minimi dettagli e frutto di una costante e quasi maniacale ricerca dell’equilibrio tra parti suonate ed elettronica: il giusto tappeto sonoro per valorizzare la voce calda e delicata di Francesca, che si muove negli spazi lasciati liberi da una musica che non può e non vuole arrivare a riempire le frequenze. Suoni che brillano per raffinatezza ed eleganza, e che in Italia sarebbero classificati come alternativi e indie ma che nel mondo britannico e anglofono fanno invece parte di una corrente importante ormai diventata mainstream, come dimostra il grande numero di artisti che ne fanno parte a vario titolo.

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Florence Welch incanta Bologna

Florence Welch sul palco della Unipol Arena

Florence Welch sul palco della Unipol Arena

Travolgente, ipnotica, istrionica, sensuale, teatrale, folle, esuberante, intensa. Non è facile descrivere con aggettivi il personaggio, ma soprattutto l’artista, Florence Welch, senza dubbio il fenomeno più interessante che la musica britannica, e non solo, ci ha proposto in questi ultimi anni. Si può però provare a farlo utilizzando due immagini, due flash: i primi fotogrammi dello spettacolo entusiasmante che la rossa londinese ha regalato a una Unipol Arena gremita, insieme alla band che con lei forma i Florence and the Machine. Nel primo fotogramma, dopo l’ingresso della band, Florence entra in scena puntualissima in un lungo abito turchese pieno di svolazzi e trasparenze e a piedi nudi come da tradizione, si posiziona davanti al microfono e sposta una mano nell’aria con un gesto teatrale; l’arena esplode. Nel secondo fotogramma, invece, attacca il primo pezzo della scaletta ed il pezzo è What The Water Gave Me (peccato che non sia stata seguita dal suo naturale prolungamento Never Let Me Go) cioè il manifesto che riassume in un solo brano il suo stile musicale e la sua poetica: il titolo viene da un quadro di Frida Kahlo mentre il testo è ispirato dal suicidio di Virginia Woolf che si buttò nel fiume Ouse con le tasche piene di sassi: “Lay me down, let the only sound be the overflow, pockets full of stones”. Difficile immaginare un altro artista con la stessa presenza scenica e gli stessi riferimenti culturali.

Purtroppo il suicidio e le sventure erano all’ordine del giorno in casa Welch, dove la giovane Florence dovette assistere al divorzio dei genitori, alla morte del nonno paterno in seguito a un ictus e al suicidio della nonna materna affetta da malattia bipolare. E per non farsi mancare nulla, si esibì per la prima volta in pubblico, cantando The Skye Boat Song al funerale della nonna paterna, a sua volta vittima di ictus. Normale che i temi a lei cari siano quelli ispirati al rinascimento e al romanticismo poetico: amore e morte, tempo e dolore, paradiso e inferno. E così Florence, nonostante i soli 29 anni, porta già sul volto i segni dei tanti tormenti passati, ma anche il sorriso sincero di chi in qualche modo se li è messi alle spalle, almeno fino al prossimo. Ironizzando anche su una certa passione per il vino (“Another drink just to pass the time, I can never say no” racconta in Delilah) e sulla leggenda che la vuole comporre sempre in seguito a una sontuosa sbronza.

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Playoff NBA: parte la caccia a Steph Curry

Steph Curry in azione

Steph Curry in azione

E così con la notte, da 60 punti, che ha tolto Kobe Bryant dal parquet per consegnarlo definitivamente alla storia, si è conclusa la regular season 2015-2016 NBA e da domani partirà la caccia al trono di Steph Curry e dei suoi Golden State Warriors, da oggi franchigia-record di tutta la storia della lega. 1230 partite in poco più di cinque mesi, per qualificare ai playoff più della metà delle partecipanti: questo è il tributo che questi superatleti devono pagare alle televisioni, quelle che finanziano i loro ricchi contratti, dalla prossima stagione ancora più ricchi.

1230 partite che però questa volta hanno regalato agli appassionati quella che è stata e che sarà ricordata per moltissimi anni come la stagione dei record, per lo meno sulla West Coast: history in the making è stata la frase ricorrente che ha accompagnato questi mesi, cominciati con il record della striscia vincente iniziale degli Warriors (24-0) che ha surclassato quello che condividevano Houston Rockets 1993-94 e Washington Capitals 1948-49 (15-0), e terminati con la vittoria su Memphis che, proprio all’ultimo respiro, ha consegnato a Steph Curry e compagni il miglior record di sempre in regular season (73-9), strappandolo ai leggendari Chicago Bulls 1995-96 di Michael Jordan. In mezzo, una striscia di 54 gare consecutive vinte tra le mura amiche della Oracle Arena, anche questo record all-time.

E, parlando di mura amiche, ecco un altro record stabilito dai San Antonio Spurs all’ombra dell’Alamo: miglior partenza casalinga di sempre nella storia dell’NBA (39-0) e miglior record casalingo (40-1) in comune con un’altra squadra leggendaria come i Boston Celtics 1985-86. Chi ha impedito agli Spurs, alla miglior stagione della franchigia (e settima di sempre) con 67-15, di centrare un clamoroso 41-0? Ovviamente i Golden State Warriors.

Ad ovest tutto deciso, quindi? Parrebbe di sì, perché la distanza tra Warriors e Spurs e le altre sembra siderale: solo la stagione record degli Warriors ha infatti oscurato, parzialmente, quello che a duemila miglia di distanza ha fatto la squadra di Gregg Popovich, tra l’altro gestendo oculatamente le forze di qualcuno dei sui anziani leader e fregandosene bellamente del record. In altre parole, è probabile che spremendo un po’ di più i Duncan, i Parker e i Ginobili il 72-10 dei Bulls potesse tranquillamente essere anche alla portata dei texani. Ma la filosofia della franchigia prevede di concentrarsi sull’obiettivo principale, i playoff, e non certo sui traguardi intermedi.

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La crescita costante di Violetta Zironi

Violetta Zironi sul,palco di Vinitaly (© Paola Conti)

Violetta Zironi sul,palco di Vinitaly (© Paola Conti)

Dopo diversi mesi di astinenza durante i quali, per vari motivi, non ho avuto la possibilità di assistere a concerti di Violetta Zironi non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di una doppietta in terra veneta, unita all’opportunità di abbinare due suoi concerti a un weekend tra le bellezze di Padova e Verona. Sia sul palco un po’ improvvisato dell’Osteria Barabba di Padova, sia su quello ben più strutturato di Piazza dell’Arsenale di Verona, nell’ambito degli eventi di Vinitaly and the City, Violetta si è trovata perfettamente a suo agio, esibendo un repertorio rinnovato ma come sempre fedele alle sue radici e al suo percorso musicale. E ho potuto constatare, non che ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma, che Violetta è ormai diventata una one-girl band, in grado di reggere da sola qualsiasi palco, forte solo della sua voce, della sua chitarra e del suo ukulele.

Quella che si propone al pubblico veneto, quindi, è una Violetta già molto cresciuta e maturata rispetto a soli pochi mesi fa e la cui crescita continua inesorabile e incessante grazie alle preziose esperienze che sta collezionando in Italia e in tutta Europa: le recenti date a Berlino, Parigi e Londra; le tappe italiane, e non solo, ospite dell’amico Jack Savoretti, al cui tour continua a partecipare; le sessioni di songwriting con Pedro Vito, il chitarrista dello stesso Savoretti; le tante partecipazioni a Radio 2 Social Club con Luca Barbarossa su Radio 2.

Violetta imbraccia la sua Epiphone acustica (riducendo, giustamente, il numero di pezzi che interpreta con l’ukulele) e guida il pubblico in un viaggio lungo la strada della sua musica, che parte da radici lontane e a stelle e strisce, ma che poi approda fino ai giorni nostri, unendo il piacere della modernità al gusto per le meraviglie del passato: così country, bluegrass, blues e rockabilly si mescolano e si alternano fino a sfociare in maniera del tutto naturale nei brani originali composti da Violetta, che reinterpretano la tradizione arricchendola di elementi contemporanei, e tra cui spicca la splendida Every Little Ghost che rimane intatta in tutta la sua forza e intensità anche in versione voce e chitarra, dopo averla conosciuta nel bellissimo arrangiamento brit-pop fatto con la Social Band proprio a Radio 2.

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