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NBA preview. Western Conference

Steph Curry nella caratteristica posa col paradenti tra le  labbra

Steph Curry nella caratteristica posa col paradenti tra le labbra

E dopo aver analizzato la Eastern Conference, oggi buttiamo un occhio a quella che dovrebbe essere ancora una volta la Conference più competitiva: la Western.

1.GOLDEN STATE WARRIORS

CurryThompsonIguodalaDurant Green. Basterebbe enunciare la death line-up che coach Kerr utilizzerà per spaccare le partite per prendere paura e attribuire subito agli Warriors il ruolo di superfavoriti. Se poi aggiungete il fatto che questo quintetto, con Harrison Barnes al posto di KD, l’anno scorso ha stabilito il primato di vittorie in regular season (73-9) e si è fermata a una stoppata (già leggendaria) di LeBron dal secondo titolo consecutivo facendosi rimontare da 3-1 nelle Finals, sembrerebbe che per gli altri possano restare solo le briciole. Sembrerebbe. Perché il basket non è matematica e non basta sommare i talenti per ottenere la squadra perfetta. Perché quando scende la death line-up e serve un lungo vero non c’è più Andrew Bogut ma Zaza Pachulia. Perché oltre a Barnes e Bogut, non ci sono più nemmeno Ezeli, Barbosa e Speights e la panchina zoppica e invecchia. Favoritissimi sì, ma mai dire mai.

2.SAN ANTONIO SPURS

La fine dell’epopea di Tim Duncan dopo 19 stagioni chiude per forza di cose un capitolo straordinario della franchigia dell’Alamo. Con Manu Ginobili, la consueta qualità spalmata su sempre meno minuti, ormai a sua volta prossimo all’addio, ecco che gli Spurs scelgono la strada della transizione “morbida” con l’obiettivo di ricostruire senza smettere di essere competitivi. Forti della nuova colonna portante della squadra Kawhi LeonardLaMarcus Aldridge, aggiungono da una parte l’esperienza di David Lee e soprattutto Pau Gasol, dall’altra l’atletismo di giovani come Davis Bertans e il probabile steal Dejounte Murray a colmare il gap di fisicità e freschezza costata la serie contro OKC agli scorsi playoff. La misura della qualità e della profondità del roster è data dal fatto che al 99% né Laprovittola e Garino (nazionali argentini) né il “nostro” Ryan Arcidiacono (uno dei talenti più interessanti usciti dal college) vi entreranno. Il resto lo faranno i “soliti” Tony Parker, Danny Green e Patty Mills (e in parte Simmons, Anderson e Dedmon), ma soprattutto il sistema e le alchimie di coach Popovich.

3.OKLAHOMA CITY THUNDER

Dice: ma come? Se sono arrivati terzi con Kevin Durant, come possono confermarsi terzi senza? Non abbiamo forse già visto due stagioni fa quali sono i limiti dei Thunder senza KD? Sì, è così ma ci sono due ma. Il primo si chiama semplicemente Russell Westbrook, che, consapevole di quanto la squadra sia ora tutta sua, non vede l’ora di far sapere all’ex compagno quanto si sia sbagliato. Il secondo è la strategia della franchigia che dovendo scegliere tra svaccare (cedere anche Westbrook e ricominciare da capo) e rilanciare, ha scelto la seconda strada costruendo una squadra equilibrata e studiata apposta per esaltare lo 0. Victor Oladipo è il compagno di reparto ideale, mentre il front court è il più profondo e versatile della lega: oltre a Steven Adams ed Enes Kanter, arrivano l’altro turco Ersan İlyasova, Joffrey Lauvergne e il rookie figlio d’arte Domantas Sabonis. Certo, lo spot da ala piccola resta inesorabilmente orfano: Andre Roberson, l’esperimento tentato fin qua da coach Donovan, può forse valere Durant in difesa ma non certo in attacco, ma se gli altri quattro (Russell in testa) riescono a dividersi i punti di KD, i Thunder diventano molto interessanti.

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NBA preview. Eastern Conference

LeBron James stoppa Andre Iguodala in Gara 7

LeBron James stoppa Andre Iguodala in Gara 7

Sempre per via del fatto che i pronostici non li sbaglia solo chi non li fa, mi espongo al pubblico ludibrio provando a prevedere (in ottobre!) quello che succederà ad aprile, in un mondo totalmente imprevedibile come quello dell’NBA, dove sorprese inaspettate, clamorosi flop, infortuni altamente condizionanti sono all’ordine del giorno. Pronosticare anche solo le otto qualificate ai playoff di ciascuna Conference è più un esercizio di stile per stimolare una dibattito che una vera valutazione tecnica, pertanto sarei già contento di azzeccarne cinque su otto e dieci su sedici. Ovviamente senza indovinare la posizione. Oggi partiamo, in onore dei defending champions, da Est.

1.CLEVELAND CAVALIERS

In una Conference da alcuni anni tecnicamente meno interessante della Western, benché ultimamente in ripresa, non si può non considerare favoriti i campioni uscenti. Con la firma in extremis di J.R. Smith il quintetto torna identico a quello dell’anno scorso, ma perde un po’ di grinta dalla panchina che garantiva Matt Dellavedova. A favore dei Cavs la possibilità di giocare finalmente con meno pressione, avendo finalmente portato a casa l’anello, a loro sfavore un anno in più sulle spalle di tutti (Mike Dunleavy e Chris Andersen non hanno certo svecchiato il roster) e la mancanza di appetito sportivo che spesso colpisce chi ha appena vinto.  Ma su questo vigilerà sicuramente il signor LeBron James, che ha una voglia matta di altri titoli, e li vuole vincere a Cleveland.

2.INDIANA PACERS

Partono da un settimo posto a est, non esaltante ma prezioso, e soprattutto da una serie persa solo in gara 7 contro la favoritissima Toronto. Il recupero definitivo di Paul George, l’inserimento di una solida point guard come Jeff Teague e il completamento del front court con Thaddeus Young e l’esperienza di Al Jefferson per agevolare la crescita di Myles Turner ne fanno una serissima pretendente alla finale di Conference. Se gira anche Monta Ellis possono dare fastidio a tanti, in tutti i casi difficile immaginarli più in basso del quarto posto.

3.CHARLOTTE HORNETS

Ok lo ammetto: ho un debole per Buzz City, non solo e non tanto per la dovuta ammirazione nei confronti di sua maestà Michael Jordan, ma soprattutto per il gioco espresso da coach Clifford e per la politica di valorizzazione dei talenti della franchigia. Molto dipenderà dal recupero completo di Michael Kidd-Gilchrist, importante in sé e per riportare Batum in 2 a formare un back court letale con Kemba Walker. Sotto i tabelloni c’è abbondanza tra Zeller, Williams, Kaminsky e Hawes a cui si aggiunge la voglia di riscatto e l’esperienza di Roy Hibbert; dalla panchina si alzano Ramon Sessions, Jeremy Lamb e il nostro Marco Belinelli. Gli ingredienti per andare fino in fondo e fare meglio del primo turno dei playoff, perso in gara 7 a Miami, ci sono tutti, nonostante una pessima preseason.

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Io e il tennis

Wilander e Lendl dopo la finale del 1988

Wilander e Lendl dopo la finale del 1988

Se il calcio è l’amore mercenario che si concede a tutti ed il basket la passione della maturità; se lo sci è la cotta che dura una stagione e la Formula 1 la moglie che ti tradisce, il tennis rimane la fidanzatina delle superiori, il primo bacio rubato, il primo scricchiolio di qualcosa che si rompe all’altezza dello stomaco. E per qualche ragione che non so spiegare, il tennis, molto più che la Coppa Davis o il Roland Garros, molto più che gli Internazionali d’Italia o Wimbledon, per me è Flushing Meadows, l’ultimo Slam dell’anno che segna la fine dell’estate. Sarà l’atmosfera di New York, sarà il vento che deconcentra, saranno gli aerei in decollo dal vicino LaGuardia che distraggono, sarà la pressione sui pochi eletti che arrivano sul cemento newyorkese alla caccia del Grande Slam, dopo aver collezionato i primi tre titoli (come Serena Williams un anno fa), sarà per tutti questi motivi che vincere gli US Open è tutto meno che scontato, soprattutto se si è favoriti. E che quindi il torneo assume un fascino tutto particolare.

Non a caso l’anno scorso, proprio in queste ore, stavamo celebrando un’incredibile, inattesa, insperabile e insperata finale tutta italiana tra Flavia Pennetta non ancora Fognini e Robertina Vinci. Una cosa talmente fuori dal mondo da indurre il Presidente del Consiglio Matteo Renzi a presenziare all’evento più importante nella storia del tennis italiano e uno dei principali nella storia dell’intero sport tricolore. Mai nessun tennista italiano (uomo o donna) era arrivato alla finale di Flushing Meadows (figuriamoci due!), mai nessun tennista italiano era mai arrivato alla finale di un qualsiasi torneo dello Slam al di fuori della comfort zone in terra battuta che sono i campi rossi del Roland Garros. Un torneo che ultimamente ci aveva regalato perle di gloria come il trionfo e la finale di Francesca Schiavone, subito bissati dalla finale di Sarita Errani. Quest’anno invece con Flavia ormai dedita a marito e famiglia, la corsa di Robertina Vinci si è interrotta ai quarti di finale (bravissima, comunque!) ma la storia degli US Open regala ancora novità e sorprese, con Serena Williams nuovamente battuta in semifinale, questa volta dall’ennesima giovane rampante: la statuaria ventiquattrenne ceca Karolína Plíšková, e detronizzata dalla nuova numero uno del mondo Angelique Kerber.

Insomma, un anno fu un trionfo su tutta la linea: il secondo Slam conquistato da una tennista italiana e la prima, e difficilmente ripetibile, finale tutta tricolore furono una soddisfazione enorme per chi come me è cresciuto a pane e terra battuta, nell’epoca in cui Roland Garros e Wimbledon erano in diretta tutti i giorni sulla Rai, e Flushing Meadows e Australian Open su quella che una volta era Tele+2. Già, perché il problema principale al giorno d’oggi è che per vedere qualche match in televisione, è obbligatorio avere almeno un abbonamento ad una piattaforma satellitare o digitale: solo Sky ed Eurosport trasmettono gli Slam, i Master 1000 e tutti i principali tornei dei tour ATP e WTA, con la lodevole eccezione di Supertennis, il canale della FIT, limitatamente di norma al tennis femminile.

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Playoff NBA: parte la caccia a Steph Curry

Steph Curry in azione

Steph Curry in azione

E così con la notte, da 60 punti, che ha tolto Kobe Bryant dal parquet per consegnarlo definitivamente alla storia, si è conclusa la regular season 2015-2016 NBA e da domani partirà la caccia al trono di Steph Curry e dei suoi Golden State Warriors, da oggi franchigia-record di tutta la storia della lega. 1230 partite in poco più di cinque mesi, per qualificare ai playoff più della metà delle partecipanti: questo è il tributo che questi superatleti devono pagare alle televisioni, quelle che finanziano i loro ricchi contratti, dalla prossima stagione ancora più ricchi.

1230 partite che però questa volta hanno regalato agli appassionati quella che è stata e che sarà ricordata per moltissimi anni come la stagione dei record, per lo meno sulla West Coast: history in the making è stata la frase ricorrente che ha accompagnato questi mesi, cominciati con il record della striscia vincente iniziale degli Warriors (24-0) che ha surclassato quello che condividevano Houston Rockets 1993-94 e Washington Capitals 1948-49 (15-0), e terminati con la vittoria su Memphis che, proprio all’ultimo respiro, ha consegnato a Steph Curry e compagni il miglior record di sempre in regular season (73-9), strappandolo ai leggendari Chicago Bulls 1995-96 di Michael Jordan. In mezzo, una striscia di 54 gare consecutive vinte tra le mura amiche della Oracle Arena, anche questo record all-time.

E, parlando di mura amiche, ecco un altro record stabilito dai San Antonio Spurs all’ombra dell’Alamo: miglior partenza casalinga di sempre nella storia dell’NBA (39-0) e miglior record casalingo (40-1) in comune con un’altra squadra leggendaria come i Boston Celtics 1985-86. Chi ha impedito agli Spurs, alla miglior stagione della franchigia (e settima di sempre) con 67-15, di centrare un clamoroso 41-0? Ovviamente i Golden State Warriors.

Ad ovest tutto deciso, quindi? Parrebbe di sì, perché la distanza tra Warriors e Spurs e le altre sembra siderale: solo la stagione record degli Warriors ha infatti oscurato, parzialmente, quello che a duemila miglia di distanza ha fatto la squadra di Gregg Popovich, tra l’altro gestendo oculatamente le forze di qualcuno dei sui anziani leader e fregandosene bellamente del record. In altre parole, è probabile che spremendo un po’ di più i Duncan, i Parker e i Ginobili il 72-10 dei Bulls potesse tranquillamente essere anche alla portata dei texani. Ma la filosofia della franchigia prevede di concentrarsi sull’obiettivo principale, i playoff, e non certo sui traguardi intermedi.

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Steph Curry e la rivincita dei “normali”

Stephen Curry e Andre Iguodala posano con il Larry O'Brien Trophy

Stephen Curry e Andre Iguodala posano con il Larry O’Brien Trophy

È finita come da pronostico, anche se il pronostico è rimasto in bilico molto più a lungo del previsto. Se ne è giovato è stato lo spettacolo, uno dei più belli degli ultimi anni, e di conseguenza il pubblico che si è divertito ad assistere alla sfida tra due dei giocatori più forti degli ultimi anni: LeBron James e Stephen Curry. Due giocatori talmente diversi da poter essere considerati diametralmente opposti, accomunati solo da un talento sovrumano e dalla capacità di essere decisivi nei momenti importanti del match. Oltre, ovviamente, a condividere curiosamente il luogo di nascita: per entrambi l’ospedale di Akron, Ohio dove la famiglia di LeBron viveva stabilmente e quella di Steph era di passaggio, quando Curry senior, Dell, giocava proprio con i Cleveland Cavaliers.

Del talento di LeBron è già stato detto tutto, ma probabilmente con le Finals 2015 ha raggiunto il punto più alto della sua pur brillantissima carriera, addirittura superiore ai titoli consecutivi 2012 e 2013 con i Miami Heat, quando poteva contare su compagni come Dwyane Wade e Chris Bosh. In questa serie finale LeBron si è caricato l’intera squadra sulle spalle e l’ha trascinata sul 2-1 a colpi di quarantelli, assecondato dal punto di vista offensivo solo a tratti dal suo supporting cast, un’impresa che ha dell’incredibile, che si spiega anche con prestazioni difensive di un’intensità inaudita ma soprattutto con l’impatto devastante avuto da James in termini di punti, rimbalzi, assist ma soprattutto di leadership, una voce che le statistiche non contemplano ma che mai come in questa serie ha pesato, portando comprimari (uno su tutti Matthew Dellavedova) a giocare, a tratti, a livelli di all-star.

Di certo Steph Curry non ha (ancora) sviluppato la stessa dose di leadership, è molto probabile che la conquista dell’anello contribuisca alla sua crescita anche in questo senso, ma le differenze con James non finiscono certo qua, a cominciare da quelle fisiche. LeBron è alto 2.03 e pesa 115 chili, è stato scelto dai Cleveland Cavaliers come numero uno assoluto nel 2003, prima ancora di compiere 19 anni, sulla scorta di incredibili performance la squadra della sua high school in Ohio. Si è presentato in NBA autoattribuendosi i titoli di The King e The Chosen One tatuati sulla pelle a testimoniare una giovane vita da predestinato già vissuta in gran parte sotto i riflettori dei media (e anche una certa, diciamo, self confidence); in pochi anni è  riuscito a portare la squadra della sua città alla prima storica finale NBA (impresa bissata quest’anno) e in seguito a vincere due titoli in quattro finali consecutive con i Miami Heat. LeBron ha una struttura fisica e una tecnica (assist, tiro dal mid-range, e tiro da tre anche se un po’ ondivago in carriera) che gli permettono di giocare da all-star in tutti e cinque i ruoli, basti vedere i suoi miglioramenti in post basso e la presa in mano delle redini del gioco dei Cavs, da playmaker puro, una volta dovuto rinunciare a Kyrie Iriving durante le finali. Un alieno.

Stephen Curry invece è alto solo 1.91 e pesa solo 86 chili, in una lega in cui lo strapotere fisico finisce per essere un fattore, se non il fattore determinante. È stato scelto da Golden State al numero 7 del draft 2009, dietro a due all-star come Blake Griffin (1) e James Harden (3) e ci sta, ma anche dietro a pari ruolo come Tyreke Evans, Ricky Rubio e soprattuto Jonny Flynn che non ha lasciato un ricordo entusiasmante ai tifosi di Capo d’Orlando. Quindi quello che fa Curry dall’alto del suo fisico sportivo ma normale è basato esclusivamente su talento, velocità d’esecuzione, intelligenza tattica e tanto tanto lavoro. Già, perché non basta il talento per avere quel trattamento di palla, quella perfetta tecnica di rilascio che ne ha fatto probabilmente il più grande tiratore da tre punti nella storia della NBA (44 % di media carriera e non è che ne prenda pochi se ha appena stabilito il record di tiri da tre a bersaglio in regular season con 286), ci vuole anche tanto tanto allenamento specifico per costruire ritmo, smarcamento, assist, e tutto quello che serve per emergere in una lega in cui, soprattutto nei play-off, viene costantemente raddoppiato e pressato nell’intento, spesso vano, di impedirgli un assist o un tiro con spazio.

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Ma la passione non può fallire – 2

Arsenal – Parma 1994, Parma – Juventus 1995, Champions League 1995-96

Wembley 1993. Tanti pensano che una gioia così sarà irripetibile, e in effetti tale rimarrà per sempre perché è la prima volta e la prima volta non si scorda mai e ha un sapore tutto suo. Però le repliche invece non mancheranno: la stagione successiva è di nuovo Coppa Coppe, ed è di nuovo finale. E dopo aver messo in fila squadroni come Ajax e Benfica, si pensa che l’ostacolo Arsenal non sia affatto insormontabile; parto per Copenaghen fiducioso di riuscire a sfatare la tradizione che vuole il bis in Coppa Coppe impossibile. Ma non sarà così: Tomas Brolin centra il palo, Alan Smith invece la mette dentro. Sulle note di Go West i tifosi Gunners cantano One-nil to the Arsenal, con quel filo di humour che permette loro di ironizzare sulla  ormai proverbiale indole sparagnina della squadra di George Graham. E tradizione della coppa confermata, con buona pace anche dei tanti tifosi romanisti accorsi al Parken a fare tifo interessato: un’eventuale vittoria del Parma avrebbe liberato un posto Uefa proprio per la Roma. Le strade di gialloblù e giallorossi torneranno ad incrociarsi drammaticamente in futuro.

Seguiranno altri trionfi disseminati lungo l’album dei ricordi, ma intanto c’è la netta percezione che qualcosa sia cambiato, che nell’isola felice si rilevino le prime incrinature nei rapporti. Georges Grün, per esempio, si sarebbe aspettato di giocare la finale: il belga era reduce da un grave infortunio che a gennaio aveva convinto la società ad ingaggiare Nestor Sensini dall’Udinese, ma era pienamente disponibile. Si sarebbe aspettato di giocare perché lo meritava, perché per tre stagioni e mezza era stato il perno della difesa e della squadra, il segreto neanche tanto segreto di Scala che grazie all’intelligenza tattica del belga poteva giocare con 5 difensori e 4 centrocampisti pur avendo due punte. Non tornano i conti? Beh, non tornavano neanche agli avversari! Se lo meritava per il suo attaccamento alla maglia, per essere sceso in campo, nonostante il dolore, tre giorni dopo la scomparsa della sua figlioletta Victoria, nata prematura. Invece è proprio Sensini a giocare, forse un premio per il gol decisivo in semifinale con il Benfica, ed il belga va in tribuna, per la regola dei soli tre stranieri a referto allora in vigore. Grün incassa da campione senza battere ciglio da signore qual è, ma a fine stagione se ne torna all’Anderlecht.

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Tim Duncan, il commiato di una leggenda?

Tim Duncan in azione con la maglia dei San Antonio Spurs

Tim Duncan in azione con la maglia dei San Antonio Spurs

Nella storia dell’NBA Timothy Theodore Duncan è probabilmente la più forte ala grande di sempre, o la più grande ala forte. Sfumature permesse dalla traduzione abbastanza libera di power forward, il suo tipico ruolo da numero 4, anche se in carriera se l’è cavata alla stragrande anche come centro puro, in particolare  dopo la fine della partnership con l’altra twin tower David Robinson e i primi due anelli. Ma quello che conta è che parliamo di un fuoriclasse assoluto del basket professionistico nel suo ruolo, e non solo.

Tim Duncan ha compiuto 39 anni lo scorso 25 aprile e pur sforzandomi non riesco a trovare altri atleti classe 1976 capaci di esprimersi a questi celestiali livelli in sport professionistici. Viene in mente Francesco Totti certo, il più anziano realizzatore della Champions League, ma Totti gioca da fermo. A basket non si può. A basket si attacca e si difende in cinque, finito un possesso devi già essere dall’altra parte a difendere e a basket non puoi aspettare la palla da fermo né difendere senza muoverti. L’integrità fisica di Tim Duncan sarà presto oggetto di studi da parte di medici e preparatori atletici, perché a 39 anni semplicemente non è umano giocare 84 partite con una media di 29 minuti a gara (35 nei play-off) agli infernali ritmi della NBA, una gara ogni 2-3 giorni.

Ma quello della spettacolare integrità fisica è solo uno degli aspetti del talento di Timmy, perché oltre alla quantità, in questi minuti mette anche tantissima qualità. Una doppia doppia di media in carriera (19.5 punti e 11 rimbalzi) già di per sé imbarazzante per chiunque volesse arrischiarsi a un paragone, che sale fino a 21 punti e 11.7 nei play-off. Con 18 punti e 11 rimbalzi di media nell’ultima, sfortunata, serie contro i Los Angeles Clippers. E una solidità difensiva che il numero di stoppate e palle recuperate è capace di misurare solo in parte.

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Ma la passione non può fallire – 1

Parma Sampdoria 1990, Parma - Juventus 1992, Parma - Anversa 1993

Parma Sampdoria 1990, Parma – Juventus 1992, Parma – Anversa 1993

Aprendo l’album dei ricordi, la prima immagine è un po’sbiadita, è in bianco e nero. Nella realtà è a colori perché risale a soli trent’anni fa, ma nella mia mente appare lontana e quindi un po’ sfumata. È il 29 aprile 1984, siamo a Reggio Emilia e al vecchio Mirabello si disputa l’ennesima edizione del derby dell’Enza di Serie C. C’è un giocatore del Parma che calcia una punizione magistrale e una volta vista la palla nel sacco corre come un matto dall’altra parte del campo, dove a 80 metri di distanza c’è la curva dei suoi tifosi. Come d’abitudine si arrampica alla recinzione, la ramäda, a festeggiare con gli ultras. Si chiama Massimo Barbuti e a distanza di tanto tempo è ancora il giocatore più amato dai tifosi crociati, a dimostrazione che per entrare nelle grazie di una tifoseria spesso contano più cuore, grinta e attaccamento alla maglia delle qualità tecniche. Peraltro tutt’altro che trascurabili nel caso di Barbuti, visti i suoi 37 gol in 98 partite che gli valsero anche qualche apparizione in Serie A con la maglia dell’Ascoli, impreziosite da un gol al Milan a San Siro.

La seconda immagine è un po’ più nitida ma lo scenario è sempre lo stesso, stesso stadio, stesso avversario, ma la categoria cambia: siamo in Serie B, è il 29 dicembre 1989 e questo derby vale per la lotta per raggiungere il palcoscenico più ambito. Il protagonista questa volta è un ragazzo che in futuro avrà una brillante carriera con le due grandi milanesi, ma che nel Parma di Nevio Scala, che funziona come un orologio perfetto, fatica a trovare spazio. Si chiama Maurizio Ganz e alla prima occasione fa vedere tutto il suo valore: con una doppietta espugna il Mirabello e lancia i gialloblù verso la prima storica promozione in Serie A, suggellata nella gara di ritorno dai giocatori simbolo del Parma primi anni ’90: Marco Osio e Sandro Melli.

Continuando a sfogliare l’album si trova un video: è il 20 gennaio 1991, ultima giornata di andata e la squadra di Scala sta disputando un campionato inimmaginabile, la pratica salvezza è ormai già archiviata e i gialloblù sono in piena lotta per un posto in Europa nel gruppetto delle prime cinque. Al Tardini arriva il Milan, è l’ultimo Milan di Sacchi in piena lotta scudetto con Inter e Sampdoria, una corazzata un po’ in disarmo dopo anni di successi in Europa, ma che può comunque ancora contare su Rijkaard, Gullit, Van Basten, Costacurta, Tassotti e Baresi; manca Maldini ma ci sono altri  due talenti e futuri allenatori crociati: Roberto Donadoni e Carlo Ancelotti. E proprio rubando palla al suo futuro mister Alessandro Melli suggella la sua doppietta stendendo i rossoneri in appena 34 minuti ed arrivando alla decima rete stagionale dopo appena un girone. La curva del Tardini è ancora la vecchia curva, e Melli salta i cartelloni pubblicitari e corre a condividere con i tifosi quello che all’epoca è il momento più alto della storia della squadra crociata. Il bello, invece, deve ancora venire: alla fine sarà quinto a pari merito col Torino e si qualificherà alla Coppa Uefa senza spareggi grazie alla squalifica del Milan dopo i fatti di Marsiglia.

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Camila Giorgi. Destinazione Top Ten?

Camila Giorgi in azione durante il torneo di Linz

Camila Giorgi in azione durante il torneo di Linz

Con l’ultimo torneo appena disputato a Mosca, si è conclusa la stagione 2014 di Camila Giorgi, una stagione impreziosita dalle prime due finali WTA, anche se purtroppo la prima vittoria nel circuito principale non è invece arrivata. Il bilancio 2014 è comunque più che positivo: Camila chiude la stagione al numero 35 del ranking mondiale (a fine 2013 era 93) con buone chance di ottenere una testa di serie ai prossimi Australian Open, nonostante il saldo pesantemente negativo in termini di punti degli US Open: primo turno nel 2014 contro il quarto turno nel 2013. Inoltre Camila mette nel suo palmarés due finali WTA, il suo best ranking al numero 31 il 25 agosto, l’esordio in Fed Cup e alcuni scalpi eccellenti come quelli di Maria Sharapova  (Indian Wells), Dominika Cibulková (Roma), Vika Azarenka (Eastbourne), Caroline Wozniacki (New Haven) e Andrea Petković (due volte), oltre alle connazionali Pennetta e Vinci.

Personalmente, ho iniziato a conoscere Camila grazie al suo exploit a Wimbledon 2012, quando si aggiudicò sei match di fila, partendo dalle qualificazioni e fermandosi agli ottavi di finale, sconfitta solo da Agnieszka Radwanska, numero tre del seeding, dopo aver battuto tra le altre Flavia Pennetta e Nadia Petrova. Cominciai a seguire i suoi tornei e, come spesso mi accade, fui subito conquistato dalla sua apparente contraddizione: da una parte il suo aspetto dolce e delicato e dall’altra, a fare da contraltare a tutta questa grazia, una potenza e una forza atletica rara nello sport femminile. Se Camila da ferma sembra una modella, in gioco è un fascio di nervi e muscoli pronti a esplodere colpi al fulmicotone con anticipi degni del primo Agassi.

La sua condotta di gara, sempre spregiudicata al limite dell’incoscienza, è insieme la sua forza e la sua debolezza, ma la sua crescita in risultati e in ranking denota un netto miglioramento nella sua capacità di leggere gli incontri e i singoli scambi: già negli ultimi tornei dell’anno si è notato un deciso decremento del numero dei doppi falli per match (da sempre uno dei punti deboli di Camila) pur senza perdere incisività nella seconda di servizio; si sono visti finalmente winners giocati in un’area di sicurezza un po’ più ampia rispetto ai tre centimetri dalla riga cui ci aveva abituati, si è delineata un’ottima tenuta mentale in situazioni complicate come gli ultimi game del secondo set a Mosca contro la Pennetta, recuperando da 0-40 sul 4-3 e mettendo cinque prime nel gioco conclusivo. Tralasciando, ovviamente, il disastroso quarto di finale disputato sempre in Russia contro la giovanissima Kateřina Siniaková: un’antologia di ciò che invece Camila non deve fare.

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