Io e il tennis

Wilander e Lendl dopo la finale del 1988

Wilander e Lendl dopo la finale del 1988

Se il calcio è l’amore mercenario che si concede a tutti ed il basket la passione della maturità; se lo sci è la cotta che dura una stagione e la Formula 1 la moglie che ti tradisce, il tennis rimane la fidanzatina delle superiori, il primo bacio rubato, il primo scricchiolio di qualcosa che si rompe all’altezza dello stomaco. E per qualche ragione che non so spiegare, il tennis, molto più che la Coppa Davis o il Roland Garros, molto più che gli Internazionali d’Italia o Wimbledon, per me è Flushing Meadows, l’ultimo Slam dell’anno che segna la fine dell’estate. Sarà l’atmosfera di New York, sarà il vento che deconcentra, saranno gli aerei in decollo dal vicino LaGuardia che distraggono, sarà la pressione sui pochi eletti che arrivano sul cemento newyorkese alla caccia del Grande Slam, dopo aver collezionato i primi tre titoli (come Serena Williams un anno fa), sarà per tutti questi motivi che vincere gli US Open è tutto meno che scontato, soprattutto se si è favoriti. E che quindi il torneo assume un fascino tutto particolare.

Non a caso l’anno scorso, proprio in queste ore, stavamo celebrando un’incredibile, inattesa, insperabile e insperata finale tutta italiana tra Flavia Pennetta non ancora Fognini e Robertina Vinci. Una cosa talmente fuori dal mondo da indurre il Presidente del Consiglio Matteo Renzi a presenziare all’evento più importante nella storia del tennis italiano e uno dei principali nella storia dell’intero sport tricolore. Mai nessun tennista italiano (uomo o donna) era arrivato alla finale di Flushing Meadows (figuriamoci due!), mai nessun tennista italiano era mai arrivato alla finale di un qualsiasi torneo dello Slam al di fuori della comfort zone in terra battuta che sono i campi rossi del Roland Garros. Un torneo che ultimamente ci aveva regalato perle di gloria come il trionfo e la finale di Francesca Schiavone, subito bissati dalla finale di Sarita Errani. Quest’anno invece con Flavia ormai dedita a marito e famiglia, la corsa di Robertina Vinci si è interrotta ai quarti di finale (bravissima, comunque!) ma la storia degli US Open regala ancora novità e sorprese, con Serena Williams nuovamente battuta in semifinale, questa volta dall’ennesima giovane rampante: la statuaria ventiquattrenne ceca Karolína Plíšková, e detronizzata dalla nuova numero uno del mondo Angelique Kerber.

Insomma, un anno fu un trionfo su tutta la linea: il secondo Slam conquistato da una tennista italiana e la prima, e difficilmente ripetibile, finale tutta tricolore furono una soddisfazione enorme per chi come me è cresciuto a pane e terra battuta, nell’epoca in cui Roland Garros e Wimbledon erano in diretta tutti i giorni sulla Rai, e Flushing Meadows e Australian Open su quella che una volta era Tele+2. Già, perché il problema principale al giorno d’oggi è che per vedere qualche match in televisione, è obbligatorio avere almeno un abbonamento ad una piattaforma satellitare o digitale: solo Sky ed Eurosport trasmettono gli Slam, i Master 1000 e tutti i principali tornei dei tour ATP e WTA, con la lodevole eccezione di Supertennis, il canale della FIT, limitatamente di norma al tennis femminile.

Certo, per chi era abituato ai formidabili duetti tra Rino Tommasi e Gianni Clerici le telecronache moderne, per quanto tecnicamente perfette, mancano del sale e del pepe che solo la strepitosa coppia, sempre in perfetto equilibrio tra cronaca e folklore, tra competenza e gossip, sapeva dare. Mancano i circoletti rossi, i punteggi pesanti, i minibreak e i quinti e decisivi set di Tommasi; mancano i commenti sui look e le descrizioni immaginifiche di Clerici (“Agassi sembra un ciclista in premaman”, “Connors è in piena erezione agonistica”, “Signorina Sabatini, è sempre un piacere”,…). Mancano intere nottate passate in diretta da Melbourne con la coppia che apre il collegamento cantando “Bongo bongo bongo stare bene solo al Congo, non mi muovo no no…”; e ripensarci è come aprire un album zeppo di ricordi che la palla gialla saltellante fa riaffiorare.

Ricordi di quanto feci l’alba in una lunghissima sera, diventata poi notte, del settembre 1988, esattamente 28 anni fa, in cui io e la mia mamma, stesi sul divano, vedemmo il nostro beniamino Mats Wilander piegare in una finale infinita il rivale di sempre Ivan Lendl, per conquistare il suo primo e unico titolo proprio agli US Open, arrivando finalmente al numero uno della classifica ATP. Ricordi di quanto, l’anno dopo, “scappai” insieme con un mio amico dalla nostra vacanza – studio in un paesino a sud di Londra per andare a cercare i biglietti per Wimbledon e, dopo una levataccia alle quattro di mattina per prendere prima un treno fino a Victoria Station, e poi l’underground fino a Wimbledon e dopo quattro ore di coda sotto la pioggia, riuscimmo a trovare i biglietti per il campo numero 2 dove vedemmo campioni come Gabriela Sabatini e Steffi Graf che giocavano il doppio insieme, Miroslav Mečir e, appunto, Mats Wilander. Ricordi di quando il mio maestro Giancarlo Fortunati (un martello da niente!) mi faceva fare giri di campo di corsa punitivi perché chiudevo il rovescio troppo in basso, perché ritardavo l’apertura del dritto, perché non tenevo il polso rigido nella volée, perché sbagliavo la seconda di servizio. E meno male che un campo da tennis è piccolo! Perché sì, lo ammetto: nel mio piccolo anch’io sono stato un po’ tennista e non sono ancora del tutto guarito; uno che si esaltava col serve and volley di Stefan Edberg ma che una volta in campo si faceva impallinare da passanti da tutte le parti ogni volta che si presentava a rete.

Uno che però nella vita ha anche giocato gli Australian Open. Vabbè, non ho proprio giocato gli Australian Open. Diciamo che ho semplicemente giocato su uno dei campi in cui si giocano gli Australian Open; in Australia sono più democratici che a Londra o Parigi: quando non c’è il torneo possono andare a giocare cani e porci. Ora, una sera tra questi cani o questi porci, fate voi, c’ero anch’io. Mi trovavo a Melbourne per lavoro e, parlando del più o del meno col mio cliente, lui mi raccontava che, da bravo appassionato, ogni gennaio acquistava il pacchetto Quarti + Semifinali + Finali per gli Open. Io, per non essere da meno, di rimando gli raccontai di quella volta a Wimbledon.
“Ma quindi anche tu segui il tennis?”
“Sì sì… appena posso lo guardo.”
“Ma giochi anche?”
“Ma sì, giocavo…. però è un sacco di tempo che…”
Non riuscii a finire la frase che in un amen c’era già un doppio organizzato per la sera, e così mi ritrovai a guardare le mura della Rod Laver Arena dal campo numero 4 del Melbourne Park, dove, tra le altre cose, era in corso un concerto di Pink. Per inciso, trovarmi lì in pantaloncini e racchetta insieme con Martin, il mio cliente, mi fece riflettere lungamente sulla splendida e inimitabile concezione di lavoro che hanno gli australiani, per i quali alle 17.01 in ogni caso il lavoro è finito e scatta l’ora della birra.

Era una splendida sera di fine luglio dell’estate australe (molto più mite del nostro inverno) e pertanto la serata era fresca ma non fredda e si prestava perfettamente a due palle in amicizia. Amicizia poi… Martin doveva aver convocato l’intera squadra di Coppa Davis australiana, e io non mi trovavo esattamente all’altezza della situazione: tra questi energumeni che sparavano dritti a 120 all’ora come neanche Agassi ai tempi d’oro, la superficie più veloce che avessi mai visto, e una racchetta presa in prestito con cui non riuscivo a fare nulla, in pratica passai un’ora a guardare gli altri giocare, riuscendo a toccare la palla solo al mio turno di servizio, che peraltro difesi strenuamente. Un disastro, ma Martin fu molto comprensivo con me e nonostante la disfatta, a quanto mi risulta è ancora cliente dell’azienda per cui lavoravo.

Ma in tutto ciò, la cosa più divertente della serata fu la composizione delle coppie: io, quattro quarti di sangue banalmente italiano, mi sentivo infatti piuttosto a disagio. Il mio socio Martin, infatti, ha passaporto australiano ma è di origine ceca; i nostri avversari erano Mark, anche lui passaporto australiano ma quattro quarti di sangue greco, e Ben che in realtà era americano, ma di chiare origini asiatiche, e parlava come in un film di Bruce Willis, mettendo fucking ogni due parole, e utilizzando un inglese velocissimo e incomprensibile, temo anche per i miei amici australiani, e privo di sottotitoli. Tutto ciò mi ha fatto sentire profondamente globale, soprattutto quando siamo andati poi a cena. Naturalmente in un ristorante thailandese.