A Head Full Of Dreams. Chi ha paura del pop dei Coldplay?

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I Coldplay e la loro esplosione di colore

È un bivio davanti al quale si sono trovate tutte le grandi band, quelle dal successo planetario che riempiono gli stadi e muovono le masse. Una volta giunti a cinque o sei album, a quindici anni di onorata carriera, bisogna prendere una decisione che fatalmente scontenterà qualcuno, spesso tutti. Restare uguali a sé stessi e correre il rischio di essere accusati di ripetitività e monotonia o provare ad intraprendere strade diverse e correre il rischio di essere accusati di tradimento da parte dei fan storici, nostalgici per definizione. E la maggior parte delle volte, cambiare strada ha significato lasciarsi sedurre da suoni contemporanei, verrebbe da dire di moda. I Rolling Stones e la svolta disco di Miss You, gli U2 di Pop e la collaborazione non proprio riuscita col mago della techno Howie B, fino ai Muse e alle venature sinfoniche di The Resistance e l’electro-synth-rock di The 2nd Law. Ai Coldplay era già capitato, per la verità, di percorrere strade nuove, quando nel 2008 spiazzarono gran parte del loro pubblico con Viva La vida Or Death And All His Friends, un album decisamente diverso dai tre fortunatissimi lavori precedenti che li avevano consacrati come la band più importante del primo decennio del millennio. Ma l’accoglienza in quel caso fu ottima. Altrettanto non si può dire per A Head Full Of Dreams, settimo lavoro in studio della band, che ha fatto storcere il naso alla critica e a più d’uno dei sopracitati fan storici. L’accusa, mossa con somma indignazione da parte degli integralisti del rock, è quella di essere un album dannatamente pop.

Ebbene sì, è vero: è un album pop. Con più di una sfumatura elettronica (dai tappeti sonori dei pad ai suoni delle percussioni), che però è dosata con criterio e miscelata con eleganza ai marchi di fabbrica della band: i giri di pianoforte delle ballate più intense, i geniali riff di chitarra, i cori da stadio e, ovviamente, la voce inconfondibile di Chris Martin. E sono proprio le vicende personali del frontman ad influenzare come mai prima l’intera realizzazione dell’album, solo lui poteva riunire nello stesso disco, benché non nella stessa traccia, la voce della sua ex moglie Gwyneth Paltrow e quella della sua nuova compagna Annabelle Wallis. La delusione per la fine della relazione con Gwyneth, che già segnava inequivocabilmente le atmosfere cupe e spettrali di Ghost Stories, è finalmente superata e la nuova storia d’amore si traduce in un’esplosione di suoni, colori (da tutto il concept grafico ai titoli delle tracce strumentali), allegria e leggerezza. Come Mylo Xyloto, molto più di Mylo Xyloto, perché privo di momenti acustici dal momento che anche le ballate hanno un suono grosso, elettrico ed elettronico che profuma di power pop più che di cantautorato intimista.

Allora sì: parliamo di un album pop, ma nel senso migliore del termine, perché c’è il pop di plastica dei teen idol che durano il tempo di trovarne un altro più giovane e carino, e poi c’è il pop di qualità, fatto da band e artisti che hanno qualcosa da dire, e che sanno scrivere, arrangiare, suonare, cantare, produrre una hit senza per forza vendere l’anima al mercato. A Head Full Of Dreams rientra senza discussioni in questa categoria: colorato, divertente, leggero, allegro. Sì, sfacciatamente allegro in una sorta di caleidoscopica reazione ai lugubri fantasmi di Ghost Stories che adesso acquisiscono tutto un altro senso, così come ne acquista il ponte gettato verso nuovo mondo rappresentato allora da A Sky Full Of Stars, peraltro di qualità decisamente più bassa rispetto ai pezzi più disco e funky del nuovo lavoro.

La title track, per esempio, è un manifesto dell’intero lavoro: Jonny Buckland attacca il delay come The Edge ai tempi d’oro e in un attimo sembra di essere dentro The Joshua Tree, se non fosse per il basso saltellante di Guy Berryman che crea un groove molto più simile a Love Is In The Air che a In God’s Country. Il brano ha un beat giusto, i bpm corrono, Will Champion lavora di fino sugli hi-hat apertissimi, la produzione è corretta e non troppo invasiva, Chris canta di sogni, luci e speranze: insomma si direbbe centro al primo colpo. La successiva Birds aumenta ulteriormente i bpm ed entra in territorio decisamente rock tra basso incalzante e pennellate di chitarra in una progressione che sembra togliere il respiro fino al sorprendente finale. È con Hymn For The Weekend, però, che si entra nella tetralogia della “rinascita affettiva di Chris Martin”, ed è Hymn For The Weekend il brano più controverso e peggio digerito da parte di critica e fandom. Le accuse sono varie: dalla scelta di collaborare con Beyoncé (già tanti non avevano amato particolarmente la presenza di Rihanna in Mylo Xyloto) alla produzione degli Stargate, in questo caso effettivamente un po’ invadente, che strizza evidentemente l’occhio a  un certo pop da classifica, dall’eccessiva leggerezza del testo (che parla apertamente di ubriacature e stonature da droga) al largo utilizzo di basi elettroniche, che sembrano sommergere gli strumenti. Ma se il brano non entra evidentemente nel novero delle cose migliori della band e sembra distante anni luce dalle cose dello scorso decennio, va comunque detto che se la pietra di paragone è un pop radiofonico leggero e usa e getta, be’ anche in questo caso il talento dei Coldplay emerge in ogni aspetto, dal songwriting alle performance vocali, con una struttura di strofa – bridge – chorus che andrebbe insegnata a scuola di musica per come genera la giusta tensione. D’altra parte la traccia risulta comunque molto più interessante di Princess Of China, di cui è evidentemente figlia, ed è, come si diceva, l’inizio della rinascita di Chris Martin: mettersi Gwyneth alle spalle e ricominciare a vivere con leggerezza.

Una Gwyneth che invece, a sorpresa, ricompare nella successiva Everglow, con un coro appena accennato e molto filtrato da vocoder ed effetti vari. D’altra parte il brano parla esattamente di lei, di loro. Chris Martin si siede al pianoforte e crea una melodia destinata a restare nella storia della band, talmente in stile Coldplay da risultare più vera del vero. Come a dire ai nostalgici di Trouble e The Scientist che ce n’è anche per loro. Quello che ne esce è una ballata struggente, un pezzo che, pur risultando scolastico in alcune parti, funziona alla grande perché quando Chris parla d’amore con la profondità e delicatezza di cui è capace, dà sempre il meglio di sé; perché quando sul tappeto di piano e sulla voce di Chris entra la chitarra di Jonny sono brividi veri, e una visione di smartphone accessi e braccialetti fluorescenti nel prossimo tour. E quindi, dopo essersi ubriacato con Beyoncé e dopo aver superato i fantasmi di Gwyneth, ecco Chris pronto per una nuova avventura. E se la title track è a tutti gli effetti il manifesto di questo album, il primo travolgente singolo Adventure Of A Lifetime è la traccia più rappresentativa di questi nuovi Coldplay. Un brano decisamente di livello superiore, strano, inatteso, inconsueto, spiazzante. A tanti non è piaciuto, qualcuno ha parlato abbastanza superficialmente di svolta dance, ma i riferimenti non sono certo l’EDM o la deep house, piuttosto sarebbe corretto citare il basso in stile disco e la chitarra decisamente funky nelle strofe e incredibilmente incisiva, effettata e lavorata nel riff che rappresenta il marchio distintivo del pezzo. Un brano perfetto per costruzione, che fonde insieme quattro melodie diverse, che mantiene un hook incredibile pur senza un vero e proprio ritornello, che suona allo stesso modo in stile Coldplay e contemporaneo, prodotto con misura, senza tralasciare gli elementi distintivi della band come gli “oooh oooh”. Certo, è un altro genere rispetto a In My Place o Yellow, ma quindi?

La seconda ballata dell’album è impreziosita dall’ottima voce di Tove Lo che abbiamo conosciuto soprattutto con Habits (Stay High), quasi a rispondere ai maestri U2 che hanno voluto un’altra voce svedese dell’indie-pop, quella di Lykke Li, nella loro The Troubles. Fun ha una struttura meno scolastica di Everglow e risulta alla fine più interessante (anche se meno radiofonica), sia per l’ottima melodia, sia per il bell’impasto vocale tra Chris e la giovane scandinava, sia per il curioso e avvolgente battito della cassa, che sottolinea l’incipit della canzone, sia per i ricami della chitarra di Jonny. Un brano, tuttavia, essenzialmente vocale e molto intenso con uno sguardo ottimistico sulla vita che sembra voler considerare solo le cose belle di una storia, anche quando questa finisce: ma in fondo non ci siamo forse divertiti? La prima parte dell’album si chiude quindi sul bel connubio tra le voci di Chris e Tove e sembra che le cose stiano procedendo alla grande. Tutto bene, allora? Non proprio, perché da qui in poi il disco vive un momento di stasi come se non sapesse più che direzione prendere. Kaleidoscope sembra più una scusa per poter vantare una registrazione della Casa Bianca tra i crediti che un vero brano, mentre l’ottava traccia solleva più di una perplessità, non tanto per l’accreditata Army Of One, che pur non essendo un capolavoro si lascia ascoltare senza lasciare segni di alcun tipo, quanto per la traccia nascosta (che poi nascosta non è, visto che è ampiamente citata nel booklet) X Marks The Spot, che probabilmente avrebbe avuto senso e dignità se fosse rimasto un esperimento ad album concluso, come spesso accade alle ghost track, ma che messa in quella posizione rimane del tutto trascurabile per testo, melodia e  produzione.

Poi di colpo l’album torna in linea di galleggiamento con il dondolante 12/8 di Amazing Day, che a sua volta riporta i suoni ai Coldplay di inizio millennio ed è una dolce carezza sul finale di un lavoro pieno invece di suoni forti, rotondi e penetranti. Con un po’ di coraggio si sarebbe potuto osare un assolo di chitarra al posto del consueto “Oh oh oh” finale che si candida a prossimo inno da stadio in occasione del futuro tour 2016, impreziosito dal sapore retrò degli archi di Davide Rossi. Quello che è certo è che il brano di chiusura del prossimo tour è già pronto e impacchettato, ed è la stessa Up & Up che chiude anche il disco, dopo l’intermezzo musicale Colour Spectrum da ricordare più che altro per la simpatica figura che lo rappresenta nei crediti. Up & Up invece è un inno all’ottimismo e ai valori in cui Chris Martin e la sua band credono da sempre, con una melodia di facile assimilazione che sboccia in un orecchiabilissimo coro gospel, che vede la partecipazione di tutte le famiglie dei membri della band, e che è facile immaginarlo ricantato a squarciagola da 80.000 voci a Wembley il prossimo giugno. E come ulteriore decorazione di un piatto già ricco, ecco soprattutto il lungo, dirompente, meraviglioso assolo di chitarra del superospite Noel Gallagher che in un attimo riporta le lancette dell’orologio alla gloriosa epoca del brit-pop (come non pensare a Champagne Supernova?) e che da solo giustifica non solo il brano, ma l’intero album.

Il giudizio complessivo sull’album, quindi, non può che essere positivo, al netto di alcuni episodi poco felici, e soprattutto al netto di paragoni privi di alcun senso con Parachutes o Viva la Vida. Di certo sarebbe molto più semplice giudicare serenamente e obiettivamente A Head Full Of Dreams se non avessimo già conosciuto i capolavori dello scorso decennio, ma molto probabilmente senza quei capolavori non si sarebbe neanche arrivati a questi album. Restano, infine, alcune perplessità sulla pochezza di alcuni testi (alla quinta rima high – sky la cosa diventa un po’ stucchevole) e sul lavoro di produzione che qua e là ha ecceduto rispetto al suono degli strumenti originali; ma le canzoni sono ottimamente scritte e come sempre perfettamente suonate, con un sound al tempo stesso riconoscibile e attuale. Non avrebbe senso rifare A Rush OF Blood To The Head perché esiste già e basta inserirlo nel lettore per risentirlo: il futuro è sempre più contaminazione e ricerca sonora e anche se la cosa può non piacere agli amanti del suono “stripped-down” con chitarra, basso, batteria e basta, dobbiamo accettare l’idea.