I droni dei Muse nel cielo di Roma

Matt Bellamy sul palco di Rock In Roma

Matt Bellamy sul palco di Rock In Roma

Parlare di consapevolezza, di self confidence, di maturità quando si parla di una band attiva da quasi vent’anni e ai vertici mondiali da almeno un decennio può suonare strano se non assurdo. Eppure l’impressione che si ha lasciando l’ippodromo delle Capannelle dove i Muse hanno tenuto il loro unico concerto italiano nell’ambito del festival Rock In Roma è proprio quella che siano cresciuti, cresciuti insieme con il loro pubblico. Un pubblico composto e ordinato come raramente si trova tra i fan del rock, impassibile (o quasi) nelle lunghissime ore di attesa sotto il sole cocente fino a che non è finalmente sceso sotto al palco posizionato strategicamente verso ovest, paziente nel tollerare l’ora abbondante di ritardo con cui si presenta sul palco la band di Teignmouth, generoso nell’applaudire l’ottimo opening act, i londinesi Nothing But Thieves di cui sentiremo parlare ancora.

Ma soprattutto un pubblico partecipe, rumoroso pur nella sua compostezza, che ha regalato allo show quel tocco in più di scenografia che l’allestimento basico del festival aveva tolto dal solito usuale spettacolo di luci e colori cui ci hanno abituato Matt Bellamy e compagni. La scelta di presenziare a tutti i principali festival estivi piuttosto che portare in giro il proprio tour significa essenzialmente questo: scalette più brevi e più concentrate sulla carriera invece che sull’ultimo, fortunato, album Drones; allestimenti basici e poco spazio per i voli di fantasia; la musica rimessa al centro con pochi orpelli, come ci insegna proprio la svolta back to basics dell’ultimo lavoro.

Così le suggestioni sinfoniche di The Resistance vengono abbandonate quasi totalmente (un solo brano), come quelle elettroniche di The 2nd Law (due pezzi). Così dal cilindro del trio escono solo cinque pezzi dall’ultimo lavoro Drones e, certamente non per caso, sono solo quelli della prima metà dell’album, quelli che raccontano la storia dell’oppressione e del lavaggio del cervello che trasforma uomini in droni umani da utilizzare come armi. Possibile ipotizzare che nel prossimo tour ci sarà spazio anche per la seconda parte dedicata alla diserzione, alla liberazione e alla rivolta anche se i messaggi dei Muse raramente danno spazio alla salvezza e alla redenzione.

Così dietro a Matt, Chris e Dom, coadiuvati dal fido polistrumentista Morgan Nicholls, c’è una scenografia essenziale con solo un grande schermo, ormai il minimo sindacale per concerti di queste dimensioni, sul quale, intorno alle 22.10, compare il volto autoritario del drill sergent che catechizza il pubblico con il suo monologo in stile Full Metal Jacket, al quale le 35.000 obbedienti reclute delle Capannelle rispondono all’unisono “Aye, Sir!”. È l’intro di Psycho e il tappo che salta a far sgorgare dalla bottiglia un’ora e quaranta di adrenalina pura e di rock’n roll senza pause: nessuna ballata, poco spazio per i convenevoli (“Buonasera Roma, come stai?” e poco altro), una cavalcata tra i grandi successi della band, una sorta di greatest hits interrotto solo sporadicamente dai brani di Drones, peraltro destinati a loro volta ad entrare a breve nel novero dei grandi successi dei Muse.

Fa uno strano effetto sentire la folla urlare gioiosamente “Your ass belongs to me” come il peggiore aguzzino di un campo di addestramento, ma fa parte del mondo in cui ci portano i Muse, con le loro storie infarcite di paranoie, di controllo mentale, di teorie del complotto. E dopo un inizio sparato e urlato il secondo pezzo è già Supermassive Black Hole, un’altra supermassive hit dal tiro impressionante che dal vivo coinvolge ancora di più. The Handler è solo l’illusione che la tensione si allenti nel tempo un po’ più rallentato del brano estratto da Drones, ma subito dopo, preceduto da piccoli teaser di Matt alla chitarra, parte il riff forse più famoso della discografia dei Muse, e dopo il forsennato crescendo di fine strofa e fill, la folla esplode all’unisono urlando a squarciagola il ritornello di Plug In Baby. Il singolone Dead Inside, una delle poche concessioni a suoni più elettronici di un set incentrato su voce, chitarra, basso e batteria, chiude per il momento la parentesi dedicata al nuovo album e si candida a classico del futuro.

Dopo cinque pezzi senza respiro ci si aspetta una ballata ma, come scopriremo alla fine, non sono previste per questa serata. Infatti, inatteso e improvviso, dal nulla sale il giro di basso distorto di Chris che inizia a disegnare la ritmica di Uprising e la folla già urla in coro la melodia della tastiera; lo schermo, come d’abitudine, rimanda l’immagine dei tre Muse divisi in tre grandi caselle tra cui si distingue il lavoro di Dom alla batteria che picchia duro a sottolineare il carattere epico del brano. La gente, incitata da Matt, grida nella notte romana il suo urlo liberatorio: “We will be victorious”. Non basta, c’è un altro basso distorto, quello che sembra levarti la pelle di dosso ad annunciare l’ennesimo classico, Hysteria, che scatena il pubblico in salti a tempo sul riff di chitarra e all’ennesimo coro sul ritornello, mentre il conteggio delle hit dopo appena trenta minuti di concerto sembra un tassametro impazzito, e il finale del brano che cita Hearbreaker e Back In Black è una chicca.

È tempo per Matt di riposare un po’ le corde vocali lasciando spazio alla consueta jam di drum’n bass di Chris e Dom, e quando rientra regala un’inattesa perla come l’intensa Citizen Erased, tratta dal secondo lavoro Origin Of Symmetry, che proprio in Drones ha trovato il suo seguito in quell’”incubo prog rock di dieci minuti” (definizione dello stesso Bellamy) che è The Globalist. Il finale al pianoforte introduce un altro brano raramente eseguito dal vivo in tempi recenti: è Apocalypse Please che si cala perfettamente nello scenario da fine del mondo che delinea l’ultimo album della band.

Il rush finale verso la conclusione del set ufficiale è un’altra lunga scarica da adrenalina che parte dalle note marziali di Supremacy e passa attraverso il meraviglioso coro che il pubblico si regala su Starlight accompagnandosi col tipico battito di mani a tempo che segue il pattern della batteria, per poi esplodere nel ritornello di Time Is Running Out ancora una volta gridato dall’intera folla estasiata, e concludersi con l’energia di Reapers che rimette al centro l’album Drones per il gran finale.

Neanche il tempo di cambiarsi d’abito (complimenti a Matt che ha tenuto il giubbotto di pelle per quasi tutto il concerto) e lo schermo è già tutto viola, mentre le parole del caratteristico lyric video iniziano a comparire e Matt inizia a scandire “M-M-M-M-Madness” sulle note elettroniche del bass-pad di Chris. È uno dei pezzi più coinvolgenti che “tira dentro” anche i fan più giovani e che apre la strada al nuovissimo singolo Mercy, impreziosito da una scenografia di stelle filanti bianche e rosse. Il compito di chiudere il concerto, come accadeva già anni fa, torna a Knights Of Cydonia che la gente, memore dello scorso tour, riconosce già dall’omaggio a Ennio Morricone di Chris con l’armonica con cui si apre il pezzo. Un’apoteosi epica e una cavalcata nelle pieghe del progressive rock con l’urlo liberatorio e catartico della folla ormai in delirio: “No one is going to  take me alive, time has come to make things right, you and I must fight for our rights, you and I must fight to survive”. Perfetto finale di uno show che conferma la grandissima dimensione dei Muse dal vivo e che lascia il desiderio di rivederli presto (già il prossimo inverno?) in Italia.