Steph Curry e la rivincita dei “normali”

Stephen Curry e Andre Iguodala posano con il Larry O'Brien Trophy

Stephen Curry e Andre Iguodala posano con il Larry O’Brien Trophy

È finita come da pronostico, anche se il pronostico è rimasto in bilico molto più a lungo del previsto. Se ne è giovato è stato lo spettacolo, uno dei più belli degli ultimi anni, e di conseguenza il pubblico che si è divertito ad assistere alla sfida tra due dei giocatori più forti degli ultimi anni: LeBron James e Stephen Curry. Due giocatori talmente diversi da poter essere considerati diametralmente opposti, accomunati solo da un talento sovrumano e dalla capacità di essere decisivi nei momenti importanti del match. Oltre, ovviamente, a condividere curiosamente il luogo di nascita: per entrambi l’ospedale di Akron, Ohio dove la famiglia di LeBron viveva stabilmente e quella di Steph era di passaggio, quando Curry senior, Dell, giocava proprio con i Cleveland Cavaliers.

Del talento di LeBron è già stato detto tutto, ma probabilmente con le Finals 2015 ha raggiunto il punto più alto della sua pur brillantissima carriera, addirittura superiore ai titoli consecutivi 2012 e 2013 con i Miami Heat, quando poteva contare su compagni come Dwyane Wade e Chris Bosh. In questa serie finale LeBron si è caricato l’intera squadra sulle spalle e l’ha trascinata sul 2-1 a colpi di quarantelli, assecondato dal punto di vista offensivo solo a tratti dal suo supporting cast, un’impresa che ha dell’incredibile, che si spiega anche con prestazioni difensive di un’intensità inaudita ma soprattutto con l’impatto devastante avuto da James in termini di punti, rimbalzi, assist ma soprattutto di leadership, una voce che le statistiche non contemplano ma che mai come in questa serie ha pesato, portando comprimari (uno su tutti Matthew Dellavedova) a giocare, a tratti, a livelli di all-star.

Di certo Steph Curry non ha (ancora) sviluppato la stessa dose di leadership, è molto probabile che la conquista dell’anello contribuisca alla sua crescita anche in questo senso, ma le differenze con James non finiscono certo qua, a cominciare da quelle fisiche. LeBron è alto 2.03 e pesa 115 chili, è stato scelto dai Cleveland Cavaliers come numero uno assoluto nel 2003, prima ancora di compiere 19 anni, sulla scorta di incredibili performance la squadra della sua high school in Ohio. Si è presentato in NBA autoattribuendosi i titoli di The King e The Chosen One tatuati sulla pelle a testimoniare una giovane vita da predestinato già vissuta in gran parte sotto i riflettori dei media (e anche una certa, diciamo, self confidence); in pochi anni è  riuscito a portare la squadra della sua città alla prima storica finale NBA (impresa bissata quest’anno) e in seguito a vincere due titoli in quattro finali consecutive con i Miami Heat. LeBron ha una struttura fisica e una tecnica (assist, tiro dal mid-range, e tiro da tre anche se un po’ ondivago in carriera) che gli permettono di giocare da all-star in tutti e cinque i ruoli, basti vedere i suoi miglioramenti in post basso e la presa in mano delle redini del gioco dei Cavs, da playmaker puro, una volta dovuto rinunciare a Kyrie Iriving durante le finali. Un alieno.

Stephen Curry invece è alto solo 1.91 e pesa solo 86 chili, in una lega in cui lo strapotere fisico finisce per essere un fattore, se non il fattore determinante. È stato scelto da Golden State al numero 7 del draft 2009, dietro a due all-star come Blake Griffin (1) e James Harden (3) e ci sta, ma anche dietro a pari ruolo come Tyreke Evans, Ricky Rubio e soprattuto Jonny Flynn che non ha lasciato un ricordo entusiasmante ai tifosi di Capo d’Orlando. Quindi quello che fa Curry dall’alto del suo fisico sportivo ma normale è basato esclusivamente su talento, velocità d’esecuzione, intelligenza tattica e tanto tanto lavoro. Già, perché non basta il talento per avere quel trattamento di palla, quella perfetta tecnica di rilascio che ne ha fatto probabilmente il più grande tiratore da tre punti nella storia della NBA (44 % di media carriera e non è che ne prenda pochi se ha appena stabilito il record di tiri da tre a bersaglio in regular season con 286), ci vuole anche tanto tanto allenamento specifico per costruire ritmo, smarcamento, assist, e tutto quello che serve per emergere in una lega in cui, soprattutto nei play-off, viene costantemente raddoppiato e pressato nell’intento, spesso vano, di impedirgli un assist o un tiro con spazio.

E di certo, guidare i Cavs (obiettivamente inferiori anche al completo e ulteriormente indeboliti dalle assenze di Varejao e Kevin Love) fino a gara 6 (e con qualche rimpianto perché la serie avrebbe anche potuto essere sul 3-0 visto il palo sulla sirena di Shumpert allo scadere del 48’ di gara 1) è stata obiettivamente un’impresa sensazionale, resa ancora più stupefacente dalla reazione dopo la sconfitta all’overtime della stessa gara 1, con il corollario dell’infortunio di Kyrie Iriving che non solo ha ulteriormente accorciato una rotazione già a 7-8 uomini ma ha anche privato Cleveland del suo giocatore di miglior talento dopo The King e di diverse soluzioni offensive che il commovente Delly a gioco lungo non ha potuto garantire, meno che mai i vari Shumpert, Jones e J.R. Smith. L’attacco di Cleveland nella serie è pertanto stato di rara bruttezza, risolvendosi nel 50 % dei casi in una continua serie di sportellate in post basso tra LeBron e Andre Iguodala che ha difeso magnificamente su un giocatore indifendibile (guardare le percentuali, non solo i punti, e soprattutto i tiri contestati) concedendogli solo quello che obbligatoriamente bisogna concedergli.

Ma in tutta la grandezza di LeBron, non si può non gioire per il successo di Golden State e del suo gioco spumeggiante fatto di continui movimenti di palla e di uomini, anche se proprio grazie alla difesa disumana di Cleveland nelle Finals questo si è visto solo a tratti. Un successo che deve tanto a coach Steve Kerr e alla sua lucidità da veterano, nonostante fosse invece al primo anno come head coach in NBA, nel prendersi il rischio di farsi segnare 40 punti a gara da LeBron pur di limitare gli aiuti e quindi gli scarichi che avrebbero messo in ritmo anche tiratori non eccelsi come le guardie dei Cavs, nel coraggio di mettere a sedere Andrew Bogut per dare spazio proprio ad Andre Iguodala, che si è strameritato il titolo di MVP delle Finals, perché oltre alla difesa implacabile su LeBron, dall’altra parte del campo non è mica stato a guardare: 16.3 punti di media nelle finali (contro i 7.8 punti della regular season) e la ciliegina dei 25 nella decisiva gara 6. Una prestazione ancora più straordinaria se si pensa che a inizio stagione Iguodala, per la prima volta nella sua carriera, era finito fuori quintetto per fare posto a Harrison Barnes, adattandosi con grande naturalezza e umiltà al ruolo di sesto uomo, così bene che ha convinto il suo coach a non poter più prescindere da lui, e non solo in difesa. Fino a riprendersi il posto da starter a partire da gara 4.

E soprattutto bisogna gioire per il primo trionfo di Steph Curry al termine di una stagione entusiasmante in cui si è guadagnato a suon di triple il titolo di MVP della stagione, dove ha sbriciolato tutti i record del tiro da tre punti e dove con i suoi Warriors ha imposto un gioco luccicante per qualità, circolazione di palla, capacità di essere squadra. Una qualità emersa chiaramente proprio nel corso delle Finals dove, a differenza di quello di Cleveland, il supporting cast dei californiani ha fatto pienamente il proprio dovere. L’ABC di David Blatt (Anyone But Curry) è stato spazzato via dall’abilità dello stesso Curry di trovare assist pazzeschi anche quando raddoppiato e pressato e quella dell’intera squadra, capace di portare palla con altri giocatori e di creare giochi alternativi in attesa della solita incredibile corsa sui blocchi di Steph. Draymond Green, Shaun Livingston, Leandro Barbosa, gli stessi David Lee e Festus Ezeli (devastante in gara 6) sono molto più che semplici comprimari, capaci anche di sopperire a un Klay Thompson, splash brother in tono minore, in palese difficoltà in tutta la serie, salvo gara 2, peraltro persa.

Ciò non toglie che Curry sia innegabilmente stata l’irrinunciabile ciliegina sulla torta di Steve Kerr, soprattutto per la sua costanza e continuità (26 punti di media nelle Finals, 28.3 nei Play-off, 23.8 nella regular season) ma anche per la capacità di risultare decisivo nei momenti topici come ci ricorda il quarto quarto di gara 5 con la serie e la partita in equilibrio e LeBron James che va all-in come recita la T-shirt dei Cavs, ed è proprio lì che Steph si è esaltato con 17 punti nel quarto (37 totali in quella che è stata la sua miglior partita delle finali) e le triple che hanno spaccato in due la partita. Un dominio assolutamente tecnico, laddove quello di LeBron è molto più atletico e muscolare, e che quindi è pura poesia per chi ama questo gioco: i movimenti fluidi, il rilascio da manuale del tiratore, il ball handling da Harlem Globetrotters. Per tutta questa bellezza è meraviglioso che il talento di Steph Curry sia in cima al mondo ed è un fantastico messaggio per chi vuole giocare a basket senza essere dotato di due metri di statura o una muscolatura ipertrofica.

Da una parte il Prescelto e il suo strapotere fisico, dall’altra Davide con una palla a spicchi al posto della fionda per annichilire tutti i Golia con quelle braccia troppo lunghe. Senza nulla togliere a LeBron, l’anello di Steph Curry è la rivincita dei normali, che poi non tutti i normali si portino da casa quella parabola lì, bè questi sono i capricci degli dei del basket, che regalano il talento a chi sa come utilizzarlo. Certo, così come LeBron non ha una particolare inclinazione nel farsi amare (prima e dopo la sbruffonata di The Decision), a qualcuno sicuramente darà fastidio qualche atteggiamento di Steph: quell’aria un po’ supponente con cui tira i liberi masticando il paradenti, forte del suo 90 % di carriera dalla lunetta, quel ball handling che sembra irridere l’avversario: mano destra, mano sinistra, in mezzo alle gambe, dietro la schiena, finta di partenza, step back, bang! Ma in realtà è solo il suo modo di trovare spazio in una lega fondamentalmente destinata ad altri fisici, portando ancora più in alto l’asticella della difficoltà, quella che dal basso del suo 1.81 aveva posizionato quindici anni fa un certo Allen Iverson. Che ne sia nato l’erede?