Quirinale. L’occasione persa

Il colle più ambito

Il colle più ambito

Non amo moltissimo parlare di politica, né tanto meno scriverne. E non è certamente per snobismo o per un’adesione al frequentatissimo movimento demagogico dell’antipolitica (quella del “fate schifo tutti”, “andate a lavorare”, “una bomba su Montecitorio”, eccetera) che invece detesto e contesto, né per mero disinteresse verso il mondo che mi ci circonda. Al contrario, per molti anni mi sono occupato di politica attivamente e pur essendomene allontanato profondamente disgustato da quanto ho potuto vedere con i miei occhi, continuo a riconoscere un alto valore alla politica, il cui vero problema, almeno in Italia, credo sia quello di essere il potere storicamente più debole, stritolato tra poteri largamente più forti, contro i quali non ha la solidità, l’autorevolezza, la capacità di mettersi, finendo per diventarne succube.

Quello che mi allontana dalla politica sono invece i dubbi. Dopo anni di militanza, di visione idealistica del mondo, di tensione morale, ora non sono più sicuro di niente. Ho accantonato le idee preconcette, mi sono aperto a diverse visioni, cerco di valutare posizioni e proposte altrui senza alcun pregiudizio aprioristico nei confronti di chi le porta avanti. Cerco di approfondire le notizie senza fermarMi alla superficie, ai titoli sensazionalistici confezionati ad arte per provocare l’immediata indignazione, la reazione sdegnata di una o dell’altra fazione, alimentata dai giornali schierati, dai blogger schierati e puntualmente ripresi dagli schieratissimi utenti dei social media. Li osservo scannarsi su Twitter e su Facebook a colpi di condivisioni di articoli, sempre ovviamente della testata o del blog amico, a consolidare le già granitiche certezze. Mai un dubbio, mai il tentativo di approfondire le posizioni dell’altro . Un po’ li invidio, ma neanche troppo.

Per questo osservo, approfondisco, studio, sicuramente mi diverto, ma non intervengo. Preferisco non intervenire e tenermi i miei dubbi piuttosto che gettarmi nell’arena. Però l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica è un’eccezione, è come il Mondiale di calcio per chi segue lo sport distrattamente, è un evento che ricorre solo una volta ogni sette anni (troppi, a mio avviso) o, in casi veramente eccezionali come questo, ogni due. Il totonomi mi appassiona il giusto, tanto in un Paese che si divide su tutto (di norma in due, ma spesso anche in tre, in quattro o peggio), qualunque nome venga fatto provocherà travasi di bile ad almeno la metà della popolazione, che si strapperà i capelli, urlando, ma soprattutto twittando, postando e lanciando campagne virali contro tale nome. Ed è proprio questo aspetto che voglio approfondire, perché penso che dopo i fatti del 2013 si sia persa un’occasione importante per rendere i cittadini più partecipi di questo importante momento della vita democratica.

Sono da sempre un fautore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica: ritengo infatti la democrazia rappresentativa la forma più corretta di regolamentazione dei rapporti tra cittadini e istituzioni e quale figura rappresenta il popolo italiano meglio del Capo dello Stato? E più il rapporto è privo di intermediazioni (come per elezione diretta del sindaco e del presidente di regione) meglio è. È pero evidente che l’elezione diretta avrebbe senso solo se la figura eletta avesse funzioni direttamente connesse al potere esecutivo come avviene negli Stati Uniti, dove il Presidente della federazione è anche capo del governo, o in Francia dove il Presidente della Repubblica nomina il Primo Ministro e lo può sostituire in qualsiasi momento.

Oggi il Presidente della Repubblica Italiana detiene molti più poteri di quanto comunemente si pensi, ma nessuno di questi è strettamente collegato al potere esecutivo, se non indirettamente. E nel discusso DDL di riforma costituzionale attualmente all’esame della Camera non c’è traccia né della ridefinizione del ruolo e dei poteri del Capo dello Stato, né di una estensione all’intera popolazione italiana della platea degli elettori, anzi alcuni emendamenti in tal senso sono stati bocciati dall’aula. E trovo che alla luce di quando avvenne nel 2013 si sia persa una grande occasione di riformare questa parte della Costituzione e dare una risposta al desiderio di partecipazione emerso con grande forza due anni fa.

Due anni fa si celebrarono le prime elezioni presidenziali dell’era social: nel 2006 Twitter era praticamente sconosciuto in Italia e Facebook vantava poche migliaia di utenti, nel 2013 non solo l’utenza di Facebook si attestava oltre i 20 milioni di persone (quasi 10 milioni su Twitter), ma la maggior parte dei personaggi politici di primo piano erano già presenti sui social media e li utilizzavano per fare politica attiva. Quello che si ricorderà sempre delle elezioni del 2013, più ancora dell’impallinatura di Romano Prodi ad opera dei 101 Democrat sniper o la candidatura di Franco Marini bruciata al primo scrutinio quando sarebbe tranquillamente passata al quarto, sarà piuttosto l’effetto virale che ebbe la circolazione dei nomi dei primi candidati nei commenti in rete.

Emerse, in altre parole, una voglia di partecipazione che, per quanto male incanalata, ai limite dell’isteria, e limitata al cosiddetto popolo del web, avrebbe dovuto essere ascoltata e colta come un’opportunità per riformare un’istituzione come quella del Presidente della Repubblica, percepita oggi molto lontana dai cittadini, e la cui elezione sembra sempre essere oggetto di trattative private, spesso al ribasso, che devono tenere conto di decine di veti incrociati e che alimentano la sensazione di distanza tra le stanze del potere e il Paese reale.

Fu proprio Matteo Renzi, niente più che sindaco di Firenze e leader di quella che allora era la minoranza dem, a dare fuoco alle polveri del web contestando apertamente a mezzo stampa, ma soprattutto a mezzo tweet la candidatura di Franco Marini, tirandosi dietro diversi milioni di follower. Due anni dopo è cambiato tutto ma non è cambiato niente: a differenza di allora, ora c’è un premier forte in carica, c’è una maggioranza di governo, c’è un cammino condiviso di riforme che comprende anche Forza Italia e che finalmente traduce in realtà l’assunto astratto secondo il quale “le regole si scrivono insieme”; ma oggi come allora il PD deve fare i conti con enormi mal di pancia interni, che a onor del vero non risparmiano nemmeno gli eterni rivali, e la composizione delle due camere non è cambiata, sebbene ora i parlamentari abbiano tutti due anni in più di esperienza e quindi non ci siano più novellini alle prime armi.

E anche oggi, ancora prima che le urne del Parlamento in seduta comune si aprano, ci sono già le prime, e in alcuni casi più che comprensibili, minirivolte virali nei confronti dei primi nomi che iniziano a circolare come quelli di Giuliano Amato o dello stesso Romano Prodi. Il Movimento 5 Stelle, abbandonato il mantra Ro-do-tà Ro-do-tà, ha rinunciato alle consultazioni on-line (una specie di parodia della democrazia diretta, imitata da Il Fatto Quotidiano con risultati esilaranti come la amplissima vittoria di Giancarlo Magalli) e resta in posizione di attesa, sperando in una rosa di nomi. Che non ci sarà. Stessa posizione attendista del blocco di centrodestra ex PDL, per una volta ricompattatosi in una strategia comune, che sembra rassegnato ad eleggere un altro presidente di area PD senza troppi lamenti, riservandosi caso mai il diritto di scegliere quello meno sgradito.

Ed è certo che la palla è a tutti gli effetti nel campo di Renzi, avendo il Partito Democratico (al netto della fronda interna) la maggioranza relativa dei grandi elettori (443), ad esso spetta evidentemente la prima mossa e l’indicazione di uno o più nomi su cui tentare una convergenza che raccolga i 505 voti necessari dal quarto scrutinio in poi e, se possibile, una maggioranza ancora più ampia e condivisa. Renzi tiene tutte le carte ben coperte e sembra volersi muovere con accortezza, votando scheda bianca per evitare di bruciare qualsiasi nome ai primi tre scrutini e per avere una prima stima dei dissidenti, ma è chiaro che il nome che uscirà alla fine sarà fatalmente rappresentativo di un nuovo posizionamento del PD rispetto alla propria minoranza interna, rispetto a qualsiasi velleità di riproporre una riedizione dell’Ulivo o dell’Unione (in altre parole: Romano Prodi), rispetto ai rapporti con l’opposizione di Forza Italia con la quale regge, per il momento, il percorso di riforme suggellato nel famigerato patto del Nazareno.

In sintesi, logica vuole che alla fine il nome che uscirà sarà quello di un esponente del PD non inviso a Forza Italia, quindi non un nome di primissimo piano che si sia contraddistinto  negli ultimi vent’anni per acceso antiberlusconismo. Sarebbe tuttavia interessante se Renzi pensasse invece di parlare a quella parte di Paese che socialista non è e proponesse un nome di area liberale e moderata, un’area che non è rappresentata sul Colle dai tempi di Cossiga e che da allora ha visto succedersi al Quirinale un cattolico di sinistra come Scalfaro, un azionista come Ciampi (indipendente, ma comunque ministro nei governi Prodi e D’Alema) e infine i nove anni di Napolitano.

Sarebbe una mossa di grande pacificazione che sigillerebbe in un colpo solo la maggioranza di governo e quella trasverale per le riforme, ma ovviamente rischierebbe di amplificare i contrasti con tutto quello che si muove a sinistra di Renzi e rendere ormai insanabile la spaccatura all’interno del PD, già sull’orlo di una scissione. La grande domanda alla quale il premier deve rispondere è dunque: posso temere una scissione guidata da Bersani e D’Alema?